Vangelo secondo Giovanni 19:1-42
Approfondimenti
lo flagellò Di solito la flagellazione precedeva l’esecuzione al palo. Dopo aver ceduto alle insistenze dei giudei che avevano chiesto a gran voce che Gesù fosse messo al palo e che Barabba fosse liberato, Pilato prese Gesù e “lo flagellò” (Mt 20:19; 27:26). Lo strumento più terribile usato per sferzare era il flagellum. Consisteva di un’impugnatura a cui erano fissate diverse cordicelle o strisce di cuoio. Queste ultime erano probabilmente appesantite da pezzetti appuntiti di osso o di metallo per rendere i colpi più dolorosi.
corona Vedi approfondimento a Mr 15:17.
gli misero un mantello color porpora Vedi approfondimento a Mr 15:17.
corona Oltre al manto porpora (a cui si fa riferimento poco prima in questo versetto), furono dati a Gesù altri simboli di regalità allo scopo di schernirlo: una corona di spine e, secondo Mt 27:29, una “canna” come scettro.
Lo vestirono di porpora Si trattò di un gesto compiuto per schernire Gesù e farsi beffe della sua regalità. Il racconto di Matteo (27:28) dice che i soldati gli misero addosso “un manto scarlatto”, un tipo di manto indossato da re, magistrati o ufficiali dell’esercito. In Marco e Giovanni (19:2) si legge che Gesù fu vestito di porpora, ma nell’antichità il termine “porpora” denotava varie sfumature di colore tra il rosso e il blu. Inoltre l’angolo di osservazione, il riflesso della luce e lo sfondo potrebbero aver influito sulla percezione del colore. Il fatto che nei Vangeli siano menzionati colori diversi dimostra una stesura indipendente da parte dei singoli evangelisti.
Salve Vedi approfondimento a Mt 27:29.
Salve O “ave”. Lett. “rallégrati”. I soldati si rivolsero a Gesù con lo stesso saluto che avrebbero rivolto a Cesare, evidentemente per schernirlo per il fatto che affermava di essere re.
Ecco l’uomo! Nonostante i maltrattamenti subiti e le ferite riportate, Gesù mostrò una calma e una dignità che anche Pilato riconobbe; queste sue parole sembrano infatti rivelare un misto di rispetto e compassione. L’espressione ecce homo con cui la Vulgata rende le parole di Pilato ha ispirato molti artisti. Chi aveva dimestichezza con le Scritture Ebraiche e sentì queste parole di Pilato potrebbe aver pensato alla descrizione profetica del Messia che si trova in Zac 6:12: “Ecco l’uomo il cui nome è Germoglio”.
Noi abbiamo una legge Rendendosi conto di non aver ottenuto alcun risultato attraverso l’accusa di reato politico, i giudei rivelano i loro veri motivi muovendo contro Gesù un’accusa di natura religiosa, quella di bestemmia. Qualche ora prima hanno presentato la stessa accusa davanti al Sinedrio, ma Pilato la sente per la prima volta.
nasca di nuovo Gesù rivelò a Nicodemo che, per vedere il Regno di Dio, un essere umano deve nascere una seconda volta. Dalle parole del v. 4 emerge che Nicodemo pensò che Gesù stesse parlando di nascere letteralmente una seconda volta. Gesù, però, continuò spiegando che nascere di nuovo significa ‘nascere di spirito’ (Gv 3:5). Coloro che devono “diventare figli di Dio” non sono “generati né dal sangue né dalla volontà della carne né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio” (Gv 1:12, 13). Pietro usò un’espressione greca simile quando in 1Pt 1:3, 23 disse che i cristiani unti vengono fatti “nascere di nuovo”. Anche se la maggioranza delle Bibbie usa l’espressione “nascere di nuovo”, alcune traduzioni dicono “nascere dall’alto”, alternativa possibile dato che il termine greco ànothen di solito significa “dall’alto” (Gv 3:31; 19:11; Gc 1:17; 3:15, 17). Entrambe le rese sono in armonia con l’idea che, per entrare nel Regno, è necessario sperimentare una nuova nascita che ha origine “da Dio”, e quindi dall’alto (1Gv 3:9). Ma, data la risposta di Nicodemo, in questo contesto ad ànothen è stato anche attribuito il significato di “di nuovo”, “un’altra volta”.
dall’alto O “dal cielo”. Il termine greco ànothen è reso “dall’alto” qui e in Gc 1:17; 3:15, 17. Lo stesso termine compare anche in Gv 3:3, 7, dove può essere reso sia “di nuovo (un’altra volta)” sia “dall’alto”. (Vedi approfondimento a Gv 3:3.)
l’uomo È probabile che Gesù non si riferisse a Giuda Iscariota o a qualcun altro in particolare, ma a tutti coloro che si stavano rendendo complici del suo omicidio. Tra i colpevoli di quel peccato c’erano Giuda, “i capi sacerdoti e l’intero Sinedrio”, e perfino “la folla” che si era fatta convincere a chiedere la liberazione di Barabba (Mt 26:59-65; 27:1, 2, 20-22; Gv 18:30, 35).
amico di Cesare Questo titolo onorifico era spesso conferito ai governatori delle province dell’impero romano. In questo contesto i capi giudei lo usarono evidentemente in senso generico, lasciando intendere che Pilato si stava esponendo all’accusa di condonare un caso di alto tradimento. Il Cesare di quei tempi era Tiberio, un imperatore noto per il fatto che condannava a morte chiunque considerasse sleale, persino alti ufficiali. Ad esempio Lucio Elio Seiano, che era comandante della guardia pretoriana ed era stato ufficialmente nominato “amico di Cesare”, poteva essere considerato la persona più importante dopo Tiberio. Fintantoché rimase al potere, l’influente Seiano protesse e appoggiò Pilato, un suo favorito. Comunque, nel 31 E.V. Seiano perse il favore di Tiberio, che lo accusò di sedizione e ordinò che lui e molti dei suoi sostenitori fossero messi a morte. Questo si era verificato poco tempo prima che Gesù comparisse davanti a Pilato. Pilato avrebbe dunque rischiato la vita se i sadducei si fossero lamentati con l’imperatore, soprattutto perché l’accusa mossa contro Pilato sarebbe stata quella di non essere “amico di Cesare”. Pilato aveva già suscitato le ire dei giudei, quindi non voleva rischiare ulteriori attriti, tanto meno un’accusa di lesa maestà. A quanto pare, quindi, Pilato si lasciò influenzare dal timore di un imperatore sospettoso quando condannò a morte Gesù, uomo che lui sapeva essere innocente.
Cesare Vedi approfondimento a Mt 22:17.
a Cesare O “all’imperatore”. L’imperatore romano all’epoca del ministero terreno di Gesù era Tiberio, ma “Cesare” non si riferiva solo all’imperatore regnante. Poteva simboleggiare l’autorità civile romana (lo Stato) e i suoi rappresentanti, che Paolo chiama “autorità superiori” e a cui Pietro fa riferimento parlando del “re” e dei suoi “governatori” (Ro 13:1-7; 1Pt 2:13-17; Tit 3:1; vedi Glossario, “Cesare”).
tribunale Il termine originale qui presente di solito indicava una tribuna elevata, all’aperto, dove le autorità si sedevano per rivolgersi alle folle e annunciare le loro decisioni.
ebraico Nelle Scritture Greche Cristiane, gli scrittori biblici ispirati usarono il termine “ebraico” per indicare la lingua parlata dai giudei (Gv 19:13, 17, 20; At 21:40; 22:2; Ri 9:11; 16:16), come pure la lingua in cui Gesù, una volta risuscitato e glorificato, si rivolse a Saulo di Tarso (At 26:14, 15). In At 6:1 si fa una distinzione fra “giudei di lingua ebraica” e “giudei di lingua greca”. Anche se alcuni studiosi ritengono che in questi riferimenti il termine “ebraico” andrebbe reso “aramaico”, ci sono validi motivi per credere che il termine si riferisca effettivamente alla lingua ebraica. In At 21:40; 22:2 il medico Luca dice che Paolo parlò agli abitanti di Gerusalemme “in ebraico”; in quella circostanza Paolo si stava rivolgendo a persone la cui vita era incentrata sullo studio della Legge mosaica in lingua ebraica. Inoltre, fra i tanti frammenti e manoscritti che costituiscono i Rotoli del Mar Morto, la prevalenza di testi biblici e non biblici in ebraico mostra che questa lingua era usata quotidianamente. E la presenza, seppur minore, di frammenti in aramaico dimostra che venivano utilizzate entrambe le lingue. Sembra quindi molto improbabile che con il termine “ebraico” gli scrittori biblici si riferissero all’aramaico o al siriaco. (Confronta At 26:14.) In precedenza le Scritture Ebraiche avevano distinto l’“aramaico” dalla “lingua dei giudei” (2Re 18:26), e Giuseppe Flavio, storico del I secolo, in riferimento a questo stesso passo biblico parla dell’“aramaico” e dell’“ebraico” come di due lingue diverse (Antichità giudaiche, X, 8 [i, 2]). È vero che l’aramaico e l’ebraico presentano termini abbastanza simili e che forse altri termini ebraici sono prestiti dall’aramaico, ma sembra che non ci sia alcuna ragione per cui gli scrittori delle Scritture Greche Cristiane dovessero dire “ebraico” se intendevano “aramaico”.
tribuna Vedi approfondimento a Mt 27:19 e Glossario, “tribunale”.
Lastrico Questo luogo era chiamato in ebraico Gabbatà, vocabolo di derivazione incerta che forse significa “colle”, “altura” o “spazio aperto”. Il nome greco Lithòstroton (“Lastrico”) poteva indicare un semplice selciato o un pavimento decorato; alcuni studiosi ritengono fosse una superficie rivestita di mosaici. Questo luogo poteva essere uno spiazzo situato davanti al palazzo di Erode il Grande, ma secondo alcuni studiosi si trovava altrove. L’esatta ubicazione è incerta.
ebraico Vedi approfondimento a Gv 5:2.
giorno della Preparazione Così veniva chiamato il giorno che precedeva il Sabato settimanale, durante il quale gli ebrei si preparavano per il Sabato. (Vedi approfondimento a Mr 15:42.) Il Vangelo di Giovanni aggiunge la specifica della Pasqua. In questo contesto ci si riferisce alla mattina del 14 nisan, giorno del processo e della morte di Gesù. Il giorno di Pasqua era iniziato la sera prima; come mostrano gli altri Vangeli, Gesù e gli apostoli avevano consumato la cena pasquale quella sera (Mt 26:18-20; Mr 14:14-17; Lu 22:15). Cristo osservò alla perfezione i precetti della Legge, incluso quello di celebrare la Pasqua il 14 nisan (Eso 12:6; Le 23:5). Nel 33 questo giorno poteva essere considerato la Preparazione della Pasqua nel senso che era la preparazione per la Festa dei Pani Azzimi, festa che iniziava il giorno successivo e durava sette giorni. Dato che queste feste erano consecutive, a volte il termine “Pasqua” abbracciava l’intero periodo festivo (Lu 22:1). Inoltre il giorno dopo il 14 nisan era sempre considerato un Sabato, a prescindere dal giorno della settimana in cui cadeva (Le 23:5-7). Nel 33 il 15 nisan cadde proprio di Sabato, così che quel giorno fu “un grande Sabato”, un Sabato doppio. (Vedi approfondimento a Gv 19:31.)
circa la sesta ora Cioè mezzogiorno circa. (Per una spiegazione dell’apparente incoerenza tra questo brano e quello di Marco, dove si legge che quando Gesù fu messo al palo era “la terza ora”, vedi approfondimento a Mr 15:25.)
Preparazione Dato che evidentemente scrive in primo luogo per i non ebrei, Marco specifica che si tratta del giorno prima del Sabato, spiegazione che non si trova negli altri Vangeli (Mt 27:62; Lu 23:54; Gv 19:31). Durante quel giorno gli ebrei si preparavano cucinando per l’indomani e ultimando qualsiasi lavoro che non poteva essere rimandato a dopo il Sabato. In questo caso, il giorno della Preparazione cadde il 14 nisan. (Vedi Glossario.)
quel Sabato era un grande Sabato Il 15 nisan, il giorno dopo la Pasqua, era sempre un Sabato, indipendentemente dal giorno della settimana in cui cadeva (Le 23:5-7). Quando però questo Sabato speciale coincideva con un vero Sabato (il settimo giorno della settimana ebraica, che andava dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato), allora era considerato “un grande Sabato”. Gesù era morto di venerdì, perciò il giorno successivo era “un grande Sabato”. Tra il 31 e il 33 ci fu un solo anno in cui il 14 nisan cadde di venerdì: il 33. Questo porta alla conclusione che Gesù morì il 14 nisan del 33.
la terza ora Cioè circa le 9 del mattino. Alcuni ritengono che ci sia un’incoerenza tra questo brano e quello di Gv 19:14-16, dove è scritto che “era circa la sesta ora” quando Pilato consegnò Gesù perché fosse messo a morte. Anche se le Scritture non forniscono spiegazioni dettagliate su questa differenza, ci sono dei fattori che ne possono spiegare il motivo. Quando descrivono l’ultimo giorno della vita di Gesù sulla terra, i racconti dei Vangeli sono in genere coerenti tra loro nella collocazione temporale degli avvenimenti. Tutti e quattro i racconti indicano che i sacerdoti e gli anziani si riunirono dopo l’alba e che poi consegnarono Gesù al governatore romano Ponzio Pilato (Mt 27:1, 2; Mr 15:1; Lu 22:66–23:1; Gv 18:28). Matteo, Marco e Luca raccontano che, quando Gesù era già sul palo, le tenebre calarono sul paese dalla “sesta ora [...] alla nona ora” (Mt 27:45, 46; Mr 15:33, 34; Lu 23:44). Un elemento che può contribuire a determinare quando avvenne l’esecuzione di Gesù è questo: per alcuni la flagellazione, o fustigazione, faceva parte della procedura dell’esecuzione. Talvolta la flagellazione era così violenta da provocare la morte del condannato; nel caso di Gesù dovette essere piuttosto dura visto che fu poi necessario dare a qualcun altro il suo palo di tortura, che all’inizio aveva portato da sé (Lu 23:26; Gv 19:17). Secondo Mt 27:26 e Mr 15:15, Pilato fece mettere al palo Gesù subito dopo averlo fatto flagellare (fustigare). Se la flagellazione era considerata l’inizio dell’esecuzione, ci volle un po’ di tempo prima che la procedura giungesse al momento effettivo in cui Gesù fu inchiodato al palo. Ecco perché per alcuni l’esecuzione poteva essere avvenuta in un orario e per altri in un altro: dipendeva da quale momento segnava secondo loro l’inizio della procedura dell’esecuzione. Questo potrebbe spiegare perché Pilato si meravigliò che Gesù fosse già morto, visto che era stato appena inchiodato al palo (Mr 15:44, nt.). Un altro fattore di cui tenere conto è che gli ebrei solitamente seguivano la consuetudine di dividere la giornata in 12 ore a partire dal sorgere del sole oppure in quattro parti di 3 ore ciascuna, come si faceva per la notte. Questa seconda suddivisione spiega perché spesso si menziona la terza, la sesta o la nona ora, che andavano calcolate dall’alba, cioè intorno alle 6 (Mt 20:1-5; Gv 4:6; At 2:15; 3:1; 10:3, 9, 30). Per di più, la gente in genere non aveva orologi precisi, quindi i riferimenti temporali erano di solito accompagnati da termini come “circa”; è così ad esempio in Gv 19:14 (Mt 27:46; Lu 23:44; Gv 4:6; At 10:3, 9). Per riassumere, Marco forse indicò l’ora tenendo conto sia della flagellazione sia del momento in cui Gesù fu inchiodato al palo, invece Giovanni solo del momento in cui fu inchiodato al palo. Ed entrambi potrebbero aver arrotondato l’orario, Marco menzionando l’ultima ora della prima porzione del giorno (cioè circa le 9 del mattino), mentre Giovanni l’ultima ora della seconda porzione del giorno (cioè circa le 12). Giovanni inoltre disse che era “circa” quell’ora. Tutti questi fattori potrebbero spiegare perché nei racconti vengono dati orari differenti. Infine, il fatto che Giovanni, il quale scrisse decenni dopo Marco, abbia fornito un orario che sembra differire da quello fornito da quest’ultimo dimostra che Giovanni non si limitò a copiare dal racconto di Marco.
Portando da sé il palo di tortura Secondo il racconto di Giovanni, Gesù trasportò da solo il palo di tortura. Comunque, negli altri Vangeli (Mt 27:32; Mr 15:21; Lu 23:26) si legge che Simone di Cirene fu costretto a prestare servizio portando il palo al luogo dell’esecuzione. Il racconto di Giovanni a volte è condensato e spesso non ripete ciò che è già menzionato negli altri Vangeli. Per questo nel libro di Giovanni non si trova il dettaglio secondo cui Simone fu costretto a portare il palo.
palo di tortura Vedi approfondimento a Mt 27:32.
Luogo del Teschio L’espressione Kranìou Tòpon è la resa greca del nome ebraico Golgota. (Vedi l’approfondimento Golgota in questo versetto. Per una trattazione dell’uso che le Scritture Greche Cristiane fanno del termine ebraico, vedi approfondimento a Gv 5:2.) In Lu 23:33 alcune Bibbie in italiano riportano il termine “Calvario”, che deriva dal termine latino per “teschio” (calvaria) usato nella Vulgata.
Golgota Da un termine ebraico che significa “teschio”. (Confronta Gdc 9:53; 2Re 9:35; 1Cr 10:10; in questi versetti la parola ebraica gulgòleth è resa “cranio”, “teschio”.) Ai giorni di Gesù questo luogo si trovava fuori dalle mura di Gerusalemme. Benché l’esatta ubicazione sia incerta, secondo alcuni è ragionevole pensare che si trovasse nelle vicinanze del punto in cui oggi sorge la Chiesa del Santo Sepolcro. (Vedi App. B12.) La Bibbia non dice che il Golgota fosse su un colle, pur menzionando il fatto che alcuni osservavano l’esecuzione da lontano (Mr 15:40; Lu 23:49).
ebraico Nelle Scritture Greche Cristiane, gli scrittori biblici ispirati usarono il termine “ebraico” per indicare la lingua parlata dai giudei (Gv 19:13, 17, 20; At 21:40; 22:2; Ri 9:11; 16:16), come pure la lingua in cui Gesù, una volta risuscitato e glorificato, si rivolse a Saulo di Tarso (At 26:14, 15). In At 6:1 si fa una distinzione fra “giudei di lingua ebraica” e “giudei di lingua greca”. Anche se alcuni studiosi ritengono che in questi riferimenti il termine “ebraico” andrebbe reso “aramaico”, ci sono validi motivi per credere che il termine si riferisca effettivamente alla lingua ebraica. In At 21:40; 22:2 il medico Luca dice che Paolo parlò agli abitanti di Gerusalemme “in ebraico”; in quella circostanza Paolo si stava rivolgendo a persone la cui vita era incentrata sullo studio della Legge mosaica in lingua ebraica. Inoltre, fra i tanti frammenti e manoscritti che costituiscono i Rotoli del Mar Morto, la prevalenza di testi biblici e non biblici in ebraico mostra che questa lingua era usata quotidianamente. E la presenza, seppur minore, di frammenti in aramaico dimostra che venivano utilizzate entrambe le lingue. Sembra quindi molto improbabile che con il termine “ebraico” gli scrittori biblici si riferissero all’aramaico o al siriaco. (Confronta At 26:14.) In precedenza le Scritture Ebraiche avevano distinto l’“aramaico” dalla “lingua dei giudei” (2Re 18:26), e Giuseppe Flavio, storico del I secolo, in riferimento a questo stesso passo biblico parla dell’“aramaico” e dell’“ebraico” come di due lingue diverse (Antichità giudaiche, X, 8 [i, 2]). È vero che l’aramaico e l’ebraico presentano termini abbastanza simili e che forse altri termini ebraici sono prestiti dall’aramaico, ma sembra che non ci sia alcuna ragione per cui gli scrittori delle Scritture Greche Cristiane dovessero dire “ebraico” se intendevano “aramaico”.
palo di tortura O “palo per l’esecuzione”. (Vedi Glossario, “palo”; “palo di tortura”; vedi anche approfondimenti a Mt 10:38 e 16:24, dove il termine è usato in senso metaforico.)
palo di tortura O “palo per l’esecuzione”. (Vedi Glossario, “palo”; “palo di tortura”.)
ebraico Nelle Scritture Greche Cristiane, gli scrittori biblici ispirati usarono il termine “ebraico” per indicare la lingua parlata dai giudei (Gv 19:13, 17, 20; At 21:40; 22:2; Ri 9:11; 16:16), come pure la lingua in cui Gesù, una volta risuscitato e glorificato, si rivolse a Saulo di Tarso (At 26:14, 15). In At 6:1 si fa una distinzione fra “giudei di lingua ebraica” e “giudei di lingua greca”. Anche se alcuni studiosi ritengono che in questi riferimenti il termine “ebraico” andrebbe reso “aramaico”, ci sono validi motivi per credere che il termine si riferisca effettivamente alla lingua ebraica. In At 21:40; 22:2 il medico Luca dice che Paolo parlò agli abitanti di Gerusalemme “in ebraico”; in quella circostanza Paolo si stava rivolgendo a persone la cui vita era incentrata sullo studio della Legge mosaica in lingua ebraica. Inoltre, fra i tanti frammenti e manoscritti che costituiscono i Rotoli del Mar Morto, la prevalenza di testi biblici e non biblici in ebraico mostra che questa lingua era usata quotidianamente. E la presenza, seppur minore, di frammenti in aramaico dimostra che venivano utilizzate entrambe le lingue. Sembra quindi molto improbabile che con il termine “ebraico” gli scrittori biblici si riferissero all’aramaico o al siriaco. (Confronta At 26:14.) In precedenza le Scritture Ebraiche avevano distinto l’“aramaico” dalla “lingua dei giudei” (2Re 18:26), e Giuseppe Flavio, storico del I secolo, in riferimento a questo stesso passo biblico parla dell’“aramaico” e dell’“ebraico” come di due lingue diverse (Antichità giudaiche, X, 8 [i, 2]). È vero che l’aramaico e l’ebraico presentano termini abbastanza simili e che forse altri termini ebraici sono prestiti dall’aramaico, ma sembra che non ci sia alcuna ragione per cui gli scrittori delle Scritture Greche Cristiane dovessero dire “ebraico” se intendevano “aramaico”.
ebraico Vedi approfondimento a Gv 5:2.
latino Questa è l’unica menzione che il testo ispirato della Bibbia fa della lingua latina. Ai tempi di Gesù, il latino era la lingua delle autorità romane in Israele e veniva utilizzato nelle iscrizioni ufficiali, anche se non era comunemente parlato dalla popolazione. A quanto pare, l’ambiente multilingue del tempo spiega perché l’accusa che Pilato fece affiggere sopra la testa di Gesù Cristo al palo (Gv 19:19) era scritta non solo in latino, lingua ufficiale, ma anche in ebraico e in greco (koinè). Nelle Scritture Greche Cristiane si trovano varie parole ed espressioni che derivano dal latino. (Vedi Glossario e “Introduzione a Marco”.)
presero le sue vesti e le divisero Vedi approfondimento a Mt 27:35.
si spartirono le sue vesti Il racconto contenuto in Gv 19:23, 24 aggiunge dettagli che non si trovano in Matteo, Marco e Luca. Da un confronto tra i quattro Vangeli si può giungere a questa conclusione: a quanto pare i soldati romani tirarono a sorte sia la tunica di Gesù che le vesti che indossava sopra; divisero le vesti “in quattro parti, una per ciascun soldato”, ma la tunica non vollero strapparla, perciò tirarono a sorte per stabilire a chi dovesse andare; il fatto che i vestiti del Messia venissero tirati a sorte adempì la profezia riportata in Sl 22:18. Evidentemente era consuetudine che chi eseguiva la condanna si prendesse gli abiti delle vittime; i criminali, quindi, prima di essere giustiziati venivano privati dei loro abiti e dei loro beni. Tutto questo rendeva il supplizio ancora più umiliante.
Salome Probabilmente da un termine ebraico che significa “pace”. Salome era una seguace di Gesù. Confrontando Mt 27:56 con Mr 3:17 e 15:40, si evince che probabilmente Salome era la madre degli apostoli Giacomo e Giovanni: laddove Matteo menziona “la madre dei figli di Zebedeo”, Marco fa riferimento a “Salome”. In secondo luogo, un confronto con Gv 19:25 sembra indicare che Salome fosse sorella di Maria, madre di Gesù. In tal caso, Giacomo e Giovanni erano cugini di primo grado di Gesù. Inoltre Mt 27:55, 56; Mr 15:41 e Lu 8:3 indicano che Salome era una delle donne che accompagnavano Gesù e lo servivano con i loro beni.
palo di tortura Vedi Glossario.
la sorella di sua madre Vedi approfondimento a Mr 15:40.
Clopa Nella Bibbia questo nome è menzionato soltanto qui. Molti studiosi ritengono che Clopa corrisponda all’Alfeo menzionato in Mt 10:3, Mr 3:18, Lu 6:15 e At 1:13. Come dimostrano altri esempi biblici, non era insolito che la stessa persona avesse due nomi usati scambievolmente. (Confronta Mt 9:9; 10:2, 3; Mr 2:14.)
quello a cui Gesù voleva particolarmente bene O “quello che Gesù amava”. Questa è la prima di cinque occorrenze in cui si menziona un discepolo a cui Gesù “voleva particolarmente bene” (Gv 19:26; 20:2; 21:7, 20). In genere si ritiene che questo discepolo sia l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo (Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10). Uno dei motivi che lo suggeriscono è che l’apostolo Giovanni non è mai chiamato per nome in questo Vangelo; l’unica menzione diretta che se ne fa è in Gv 21:2, dove si fa riferimento ai “figli di Zebedeo”. Un’altra indicazione si trova in Gv 21:20-24, dove si legge che “il discepolo a cui Gesù voleva particolarmente bene” era lo scrittore di questo Vangelo. Inoltre, dell’apostolo in questione Gesù disse a Pietro: “Se è mia volontà che lui rimanga finché non verrò, a te che importa?” Queste parole suggeriscono l’idea che la persona a cui si fa riferimento sarebbe vissuta molto più a lungo di Pietro e degli altri apostoli, il che si può ben dire dell’apostolo Giovanni. (Vedi approfondimenti a Gv titolo; Gv 1:6; 21:20.)
il discepolo a cui voleva particolarmente bene O “il discepolo che amava”. Questa è la seconda di cinque occorrenze in cui si menziona un discepolo a cui Gesù “voleva particolarmente bene” (Gv 13:23; 20:2; 21:7, 20). In genere si ritiene che questo discepolo sia l’apostolo Giovanni. (Vedi approfondimento a Gv 13:23.)
quello a cui Gesù voleva particolarmente bene O “quello che Gesù amava”. Questa è la prima di cinque occorrenze in cui si menziona un discepolo a cui Gesù “voleva particolarmente bene” (Gv 19:26; 20:2; 21:7, 20). In genere si ritiene che questo discepolo sia l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo (Mt 4:21; Mr 1:19; Lu 5:10). Uno dei motivi che lo suggeriscono è che l’apostolo Giovanni non è mai chiamato per nome in questo Vangelo; l’unica menzione diretta che se ne fa è in Gv 21:2, dove si fa riferimento ai “figli di Zebedeo”. Un’altra indicazione si trova in Gv 21:20-24, dove si legge che “il discepolo a cui Gesù voleva particolarmente bene” era lo scrittore di questo Vangelo. Inoltre, dell’apostolo in questione Gesù disse a Pietro: “Se è mia volontà che lui rimanga finché non verrò, a te che importa?” Queste parole suggeriscono l’idea che la persona a cui si fa riferimento sarebbe vissuta molto più a lungo di Pietro e degli altri apostoli, il che si può ben dire dell’apostolo Giovanni. (Vedi approfondimenti a Gv titolo; Gv 1:6; 21:20.)
disse al discepolo: “Ecco tua madre!” L’amore e la premura spinsero Gesù ad affidare sua madre Maria (evidentemente ormai vedova) all’amato apostolo Giovanni. (Vedi approfondimento a Gv 13:23.) Senza dubbio Gesù si preoccupava non solo delle necessità fisiche e materiali di Maria, ma specialmente del suo benessere spirituale. E l’apostolo Giovanni aveva dimostrato la propria fede, mentre non è chiaro se i fratelli carnali di Gesù fossero già credenti (Mt 12:46-50; Gv 7:5).
vino aspro Vedi approfondimento a Mt 27:48.
dell’issopo Nelle Scritture Greche Cristiane, il termine greco hỳssopos, tradizionalmente reso “issopo”, compare solo due volte, qui e in Eb 9:19. Gli studiosi non sono concordi su quale sia la pianta a cui si fa riferimento in Gv 19:29. Alcuni pensano che si riferisca alla stessa pianta comunemente definita “issopo” nelle Scritture Ebraiche, che molti identificano con la maggiorana (Origanum syriacum o Origanum maru) (Le 14:2-7; Nu 19:6, 18; Sl 51:7). Questo issopo fu usato dagli israeliti in Egitto per spruzzare il sangue della vittima pasquale sui due stipiti e sull’architrave delle porte di casa (Eso 12:21, 22). Quindi alcuni hanno avanzato l’ipotesi che questa pianta fosse disponibile quando Gesù fu giustiziato, dato che sarebbe stata usata per la celebrazione della Pasqua. Altri ritengono che dalla maggiorana non si potesse ricavare qualcosa di abbastanza rigido per reggere una spugna imbevuta di vino o di abbastanza lungo per portare la spugna alla bocca di Gesù. Un’altra possibilità è che l’issopo a cui si fa riferimento qui possa essere stato un ciuffo di maggiorana fissato a una canna e portato alla bocca di Gesù. Questo sarebbe in armonia con i passi paralleli di Mt 27:48 e Mr 15:36, dove si dice che la spugna inzuppata di vino aspro fu messa su “una canna”.
vino aspro O “aceto di vino”. Probabilmente un leggero vinello aspro detto in latino acetum, o posca quando era diluito con acqua. Si trattava di una bevanda a buon mercato che i poveri, inclusi i soldati romani, usavano per placare la sete. Il termine greco qui usato (òxos) ricorre anche nel testo della Settanta in Sl 69:21, dove era profetizzato che al Messia avrebbero dato da bere “aceto”.
spirò O “rese lo spirito”, “smise di respirare”. Il termine greco tradotto “spirito” (pnèuma) qui può essere inteso nel senso di “respiro” o “forza vitale”. Questo è confermato dal fatto che nei brani paralleli di Mr 15:37 e Lu 23:46 viene usato il verbo greco ekpnèo, che letteralmente significa “espirare”, ma che potrebbe essere reso anche “esalare l’ultimo respiro”. Secondo alcuni, l’espressione originale resa “spirò”, che alla lettera significa “consegnò lo spirito”, indica che Gesù smise volontariamente di lottare per restare in vita, dato che tutto era compiuto. Volontariamente “[versò] la sua vita alla morte” (Isa 53:12; Gv 10:11).
giorno della Preparazione Giorno che precedeva il Sabato settimanale, durante il quale gli ebrei si preparavano cucinando per l’indomani e ultimando qualsiasi lavoro che non poteva essere rimandato dopo il Sabato. In questo caso, il giorno della Preparazione cadde il 14 nisan (Mr 15:42; vedi Glossario, “Preparazione”). Secondo la Legge mosaica, i corpi “non [dovevano] restare sul palo per tutta la notte”, ma dovevano essere seppelliti “quello stesso giorno” (De 21:22, 23; confronta Gsè 8:29; 10:26, 27).
pali di tortura Vedi Glossario.
quel Sabato era un grande Sabato Il 15 nisan, il giorno dopo la Pasqua, era sempre un Sabato, indipendentemente dal giorno della settimana in cui cadeva (Le 23:5-7). Quando però questo Sabato speciale coincideva con un vero Sabato (il settimo giorno della settimana ebraica, che andava dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato), allora era considerato “un grande Sabato”. Gesù era morto di venerdì, perciò il giorno successivo era “un grande Sabato”. Tra il 31 e il 33 ci fu un solo anno in cui il 14 nisan cadde di venerdì: il 33. Questo porta alla conclusione che Gesù morì il 14 nisan del 33.
rompere le gambe In latino questa pratica era chiamata crurifragium. Era un brutale supplizio che probabilmente in questo caso aveva l’obiettivo di affrettare la morte degli uomini al palo. Chi era appeso al palo faceva fatica a respirare; con le gambe rotte non sarebbe stato in grado di sollevarsi per ridurre la pressione a cui erano sottoposti i polmoni e sarebbe quindi morto soffocato.
l’Agnello di Dio Dopo che Gesù era stato battezzato ed era stato tentato dal Diavolo, Giovanni Battista vedendolo lo definì “l’Agnello di Dio”. Questa espressione ricorre solo qui e in Gv 1:36. (Vedi App. A7.) Il paragone tra Gesù e un agnello è calzante. Nella Bibbia si parla spesso di pecore offerte in segno di ammissione del peccato e per avvicinarsi a Dio. Questo uso prefigurava il sacrificio che Gesù avrebbe fatto offrendo la sua vita umana perfetta in favore dell’umanità. È possibile che l’espressione “Agnello di Dio” richiamasse alla mente numerosi passi delle Scritture ispirate. Tenendo conto della familiarità che Giovanni Battista aveva con le Scritture Ebraiche, le sue parole potevano alludere a una o più di queste immagini: il montone che Abraamo offrì al posto di suo figlio Isacco (Gen 22:13), l’agnello pasquale che fu scannato in Egitto per la salvezza degli israeliti in schiavitù (Eso 12:1-13) o l’agnello che veniva offerto ogni mattina e ogni sera sull’altare di Dio a Gerusalemme (Eso 29:38-42). O forse Giovanni aveva in mente anche la profezia di Isaia dove colui che Geova chiama “il mio servitore” è descritto mentre viene “portato come una pecora al macello” (Isa 52:13; 53:5, 7, 11). Scrivendo ai corinti, l’apostolo Paolo si riferì a Gesù chiamandolo “il nostro agnello pasquale” (1Co 5:7). L’apostolo Pietro disse che il sangue di Cristo era “prezioso, come quello di un agnello senza alcun difetto e immacolato” (1Pt 1:19). E nel libro di Rivelazione il glorificato Gesù viene chiamato metaforicamente l’“Agnello” oltre 25 volte. (Per alcuni esempi vedi Ri 5:8; 6:1; 7:9; 12:11; 13:8; 14:1; 15:3; 17:14; 19:7; 21:9; 22:1.)
Nessun osso gli sarà rotto Questa è una citazione di Sl 34:20. Quando istituì la Pasqua, Geova diede questo comando riguardo all’agnello (o capretto) che sarebbe stato scannato quella notte: “Non dovete romperne alcun osso” (Eso 12:46; Nu 9:12). Paolo chiamò Gesù “il nostro agnello pasquale” e infatti, in armonia con quel comando di Geova e con la profezia di Sl 34:20, a Gesù non fu rotto nemmeno un osso (1Co 5:7; vedi approfondimento a Gv 1:29). Questo avvenne secondo quanto predetto, anche se evidentemente per i soldati romani era consuetudine rompere le gambe di quelli che erano appesi al palo, probabilmente con l’obiettivo di affrettarne la morte. (Vedi approfondimento a Gv 19:31.) I soldati ruppero le gambe dei due criminali accanto a Gesù, ma, vedendo che era già morto, a lui non le ruppero. Uno di loro, però, “gli trafisse il fianco con la lancia” (Gv 19:33, 34).
rompere le gambe In latino questa pratica era chiamata crurifragium. Era un brutale supplizio che probabilmente in questo caso aveva l’obiettivo di affrettare la morte degli uomini al palo. Chi era appeso al palo faceva fatica a respirare; con le gambe rotte non sarebbe stato in grado di sollevarsi per ridurre la pressione a cui erano sottoposti i polmoni e sarebbe quindi morto soffocato.
Giuseppe Vedi approfondimento a Mr 15:43.
Arimatea Vedi approfondimento a Mt 27:57.
giudei Evidentemente le autorità giudaiche o i capi religiosi. (Vedi approfondimento a Gv 7:1.)
giudei Nel Vangelo di Giovanni questo termine trasmette significati diversi a seconda del contesto. Può riferirsi in generale agli ebrei o agli abitanti della Giudea, oppure a chi viveva a Gerusalemme o nei dintorni. Può anche riferirsi in modo più specifico ai giudei che si attenevano con fanatismo a tradizioni umane legate alla Legge mosaica, spesso contrarie allo spirito della Legge stessa (Mt 15:3-6). Fra questi “giudei” spiccavano le autorità giudaiche o i capi religiosi, che erano ostili a Gesù. In questo versetto e in alcune delle altre occorrenze di questo termine nel capitolo 7 di Giovanni, il contesto indica che ci si sta riferendo alle autorità giudaiche o ai capi religiosi (Gv 7:13, 15, 35a; vedi Glossario).
Arimatea Il nome di questa città deriva da un termine ebraico che significa “altura”. In Lu 23:51 Arimatea è definita “città della Giudea”. (Vedi App. B10.)
Giuseppe La varietà dei dettagli che gli scrittori dei Vangeli forniscono riguardo a Giuseppe fa emergere alcune delle loro caratteristiche. L’esattore di tasse Matteo lo definisce “un ricco”; Marco, che scrisse principalmente per i romani, dice che era un “rispettabile membro del Consiglio” che aspettava il Regno di Dio; il medico Luca, una persona empatica, lo descrive come un “uomo buono e giusto” che non aveva votato a favore del complotto contro Gesù tramato dal Consiglio; Giovanni è l’unico a scrivere che Giuseppe era “discepolo di Gesù ma in segreto per paura dei giudei” (Mt 27:57-60; Mr 15:43-46; Lu 23:50-53; Gv 19:38-42).
Nicodemo Giovanni è l’unico a menzionare il fatto che Nicodemo si unì a Giuseppe di Arimatea nel preparare per la sepoltura il corpo di Gesù. (Vedi approfondimento a Gv 3:1.)
una mistura In alcuni manoscritti è presente la lezione “un rotolo”. Comunque quella qui adottata (“una mistura”) è ben attestata in manoscritti antichi e autorevoli.
mirra Vedi Glossario.
aloe Nome di un tipo di pianta da cui si estrae una sostanza aromatica usata come profumo in epoca biblica (Sl 45:8; Pr 7:17; Ca 4:14). L’aloe portato da Nicodemo corrisponde probabilmente alla sostanza ricavata dal legno di aloe che è menzionata nelle Scritture Ebraiche. L’aloe era impiegato nella preparazione dei cadaveri per la sepoltura. Ridotto in polvere e mischiato alla mirra, era usato evidentemente per coprire il cattivo odore dei corpi in decomposizione. Quasi tutti i commentatori pensano che l’aloe menzionato nella Bibbia sia l’Aquilaria agallocha (il cui legno è a volte chiamato legno aquilario o legno aquila), che ora si trova principalmente in India e nelle regioni limitrofe. È un albero che può superare i 30 m d’altezza. La parte interna del tronco e dei rami è impregnata di resina e olio profumato, da cui si estrae il prezioso profumo. A quanto pare il legno è più aromatico quando comincia a decomporsi, perciò a volte viene seppellito nel terreno per affrettarne il processo di decomposizione. Ridotto in polvere fine, veniva venduto come “aloe”. Alcuni studiosi ritengono che in questo versetto il termine “aloe” si riferisca alla pianta della famiglia delle Liliacee il cui attuale nome botanico è Aloe vera. Questa pianta è usata non tanto per il suo profumo quanto per fini terapeutici.
libbre La libbra greca (in greco lìtra) equivaleva di solito a quella romana (in latino libra), pari a poco più di 327 g. La mistura qui menzionata pesava dunque circa 33 kg. (Vedi App. B14.)
Nicodemo Fariseo e capo dei giudei, ovvero membro del Sinedrio. (Vedi Glossario, “Sinedrio”.) Il nome Nicodemo, che significa “vincitore del popolo”, era molto comune fra i greci e venne adottato anche da alcuni ebrei. Nicodemo è menzionato solo nel Vangelo di Giovanni (Gv 3:4, 9; 7:50; 19:39); in Gv 3:10 Gesù lo chiama “maestro in Israele”. (Vedi approfondimento a Gv 19:39.)
tomba Vedi approfondimento a Mt 27:60.
tomba O “tomba commemorativa”. Si trattava di un vano ricavato nella tenera roccia calcarea, e non di una grotta naturale. Spesso all’interno di queste tombe si trovavano dei ripiani o delle nicchie dove si collocavano le salme. (Vedi Glossario, “tomba commemorativa”.)
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Questa è la foto di una riproduzione dell’osso di un calcagno umano trafitto da un chiodo di ferro lungo 11,5 cm. Il reperto originale fu rinvenuto nel 1968 durante degli scavi a N di Gerusalemme e risale all’epoca romana. Sarebbe la prova archeologica che i chiodi erano probabilmente utilizzati per assicurare al palo chi veniva giustiziato. Questo chiodo potrebbe essere simile a quelli usati dai soldati romani per mettere Gesù Cristo al palo. Il reperto si trovava in un ossuario, urna in cui si riponevano le ossa del defunto dopo la decomposizione. Questo indica che chi veniva messo al palo poteva comunque ricevere una sepoltura.

Il termine ebraico (ʼezòhv) e quello greco (hỳssopos) resi “issopo” in molte traduzioni bibliche includono varie specie di piante. Quella nella foto è maggiorana (Origanum syriacum o Origanum maru), la pianta a cui, secondo molti studiosi, si riferisce il termine ebraico. Questa pianta della stessa famiglia della menta è comune in Medio Oriente. In condizioni favorevoli raggiunge un’altezza di 50-90 cm. Nella Bibbia l’issopo è spesso associato all’idea di purezza (Eso 12:21, 22; Le 14:2-7; Nu 19:6, 9, 18; Sl 51:7). Nelle Scritture Greche Cristiane, “issopo” ricorre solo due volte. In Eb 9:19, dove è descritta la convalida, o inaugurazione, del vecchio patto, “issopo” si riferisce evidentemente alla pianta menzionata nelle Scritture Ebraiche. In Gv 19:29 si legge che una spugna inzuppata di vino aspro fu portata alla bocca di Gesù “su dell’issopo”. Gli studiosi non sono concordi su quale sia la pianta a cui si riferisce la parola greca hỳssopos. Secondo alcuni, dato che dalla maggiorana non sarebbe stato possibile ricavare un bastone che potesse arrivare alla bocca di Gesù, il termine qui indica una pianta dal fusto più lungo, forse la durra, una varietà di saggina (Sorghum vulgare). Altri pensano che anche in questo caso l’issopo potesse essere maggiorana e avanzano l’ipotesi che un ciuffo di maggiorana fosse stato fissato alla “canna” menzionata da Matteo e Marco (Mt 27:48; Mr 15:36).

Generalmente i soldati romani erano equipaggiati di lunghe armi realizzate per trafiggere o per essere lanciate. Il pilum (1) era progettato per trafiggere l’obiettivo contro cui veniva scagliato. Dato il suo notevole peso, aveva un raggio d’azione limitato, ma era in grado di perforare un’armatura o uno scudo. Ci sono prove del fatto che i legionari romani portassero spesso il pilum. Lance più semplici (2) erano composte da un’asta di legno con una punta di ferro forgiato. A volte i soldati della fanteria ausiliaria portavano una o più lance di questo genere. Non si sa quale tipo di lancia sia stato utilizzato per trafiggere il fianco di Gesù.

Gli ebrei avevano la consuetudine di seppellire i defunti in grotte naturali o tombe ricavate nella roccia. Queste tombe si trovavano di solito fuori dalla città, a eccezione delle tombe dei re. Le tombe ebraiche ritrovate si distinguono per la loro semplicità; questo era evidentemente dovuto al fatto che la religione degli ebrei non ammetteva il culto dei morti e non lasciava in alcun modo spazio all’idea di un’esistenza cosciente in un mondo spirituale dopo la morte.