Atti degli Apostoli 22:1-30
Approfondimenti
ebraico Nelle Scritture Greche Cristiane, gli scrittori biblici ispirati usarono il termine “ebraico” per indicare la lingua parlata dai giudei (Gv 19:13, 17, 20; At 21:40; 22:2; Ri 9:11; 16:16), come pure la lingua in cui Gesù, una volta risuscitato e glorificato, si rivolse a Saulo di Tarso (At 26:14, 15). In At 6:1 si fa una distinzione fra “giudei di lingua ebraica” e “giudei di lingua greca”. Anche se alcuni studiosi ritengono che in questi riferimenti il termine “ebraico” andrebbe reso “aramaico”, ci sono validi motivi per credere che il termine si riferisca effettivamente alla lingua ebraica. In At 21:40; 22:2 il medico Luca dice che Paolo parlò agli abitanti di Gerusalemme “in ebraico”; in quella circostanza Paolo si stava rivolgendo a persone la cui vita era incentrata sullo studio della Legge mosaica in lingua ebraica. Inoltre, fra i tanti frammenti e manoscritti che costituiscono i Rotoli del Mar Morto, la prevalenza di testi biblici e non biblici in ebraico mostra che questa lingua era usata quotidianamente. E la presenza, seppur minore, di frammenti in aramaico dimostra che venivano utilizzate entrambe le lingue. Sembra quindi molto improbabile che con il termine “ebraico” gli scrittori biblici si riferissero all’aramaico o al siriaco. (Confronta At 26:14.) In precedenza le Scritture Ebraiche avevano distinto l’“aramaico” dalla “lingua dei giudei” (2Re 18:26), e Giuseppe Flavio, storico del I secolo, in riferimento a questo stesso passo biblico parla dell’“aramaico” e dell’“ebraico” come di due lingue diverse (Antichità giudaiche, X, 8 [i, 2]). È vero che l’aramaico e l’ebraico presentano termini abbastanza simili e che forse altri termini ebraici sono prestiti dall’aramaico, ma sembra che non ci sia alcuna ragione per cui gli scrittori delle Scritture Greche Cristiane dovessero dire “ebraico” se intendevano “aramaico”.
ebraico Vedi approfondimento a Gv 5:2.
Gamaliele Maestro della Legge menzionato due volte nel libro degli Atti, qui e in At 22:3. Pare si tratti di quello che nelle fonti extrabibliche è conosciuto come Gamaliele il Vecchio. Gamaliele era il nipote, o forse il figlio, di Hillel il Vecchio, ritenuto il padre di una scuola di pensiero più liberale all’interno del gruppo dei farisei. Gamaliele era così stimato che pare sia stato il primo a essere chiamato con il titolo onorifico “rabbàn”. Esercitò una profonda influenza sulla società giudaica del suo tempo occupandosi della formazione di molti figli di farisei, tra cui Saulo di Tarso (At 22:3; 23:6; 26:4, 5; Gal 1:13, 14). Spesso interpretò la Legge e le tradizioni in un modo che sembra rivelare una certa apertura mentale. Per esempio si dice che abbia promosso leggi che tutelavano le donne da mariti privi di scrupoli e le vedove da figli snaturati, e che abbia sostenuto che i non ebrei poveri avessero lo stesso diritto alla spigolatura degli ebrei poveri. Questo atteggiamento tollerante è evidente da come trattò Pietro e gli altri apostoli (At 5:35-39). La letteratura rabbinica, comunque, dimostra che Gamaliele considerava più importante la tradizione rabbinica delle Sacre Scritture. Nel complesso quindi i suoi insegnamenti erano simili a quelli di tanti rabbi che lo avevano preceduto e dei capi religiosi dei suoi giorni (Mt 15:3-9; 2Tm 3:16, 17; vedi Glossario, “farisei”; “Sinedrio”).
Gamaliele Maestro della Legge menzionato due volte nel libro degli Atti, qui e in At 5:34. (Vedi approfondimento ad At 5:34.)
nella sala del loro Sinedrio O “nel loro Sinedrio”. Il Sinedrio era la corte suprema giudaica che si trovava a Gerusalemme. Il termine greco synèdrion (reso “sala del Sinedrio” o “Sinedrio”) deriva da una parola che significa “con”, “insieme”, e una che significa “seggio”. Anche se era un termine generico usato per indicare un’assemblea o una riunione, in Israele poteva designare un organo giudiziario, un tribunale religioso. Il termine greco può riferirsi alle persone che componevano la corte stessa oppure all’edificio o al luogo in cui la corte si riuniva. (Vedi approfondimento a Mt 5:22 e Glossario, “Sinedrio”; per la possibile ubicazione della sala del Sinedrio, vedi App. B12.)
assemblea degli anziani O “consiglio (corpo) degli anziani”. Il termine greco presbytèrion che compare qui è affine al termine presbỳteros (lett. “anziano”), che nella Bibbia si riferisce principalmente a chi ha una posizione di autorità e di responsabilità all’interno di una comunità o di una nazione. Anche se a volte denota l’età anagrafica (come in Lu 15:25 e At 2:17), presbỳteros non indica solo chi è avanti con gli anni. A quanto pare qui l’espressione “assemblea degli anziani” si riferisce al Sinedrio, la corte suprema giudaica che si trovava a Gerusalemme e che era composta da capi sacerdoti, scribi e anziani. Questi tre gruppi vengono spesso menzionati insieme (Mt 16:21; 27:41; Mr 8:31; 11:27; 14:43, 53; 15:1; Lu 9:22; 20:1; vedi approfondimento a Lu 22:66).
il Nazareno Appellativo usato per Gesù e successivamente per i suoi discepoli (At 24:5). Dato che erano molti gli ebrei che si chiamavano Gesù, era comune aggiungere una specifica che permettesse di identificare la persona; nei tempi biblici era consuetudine associare qualcuno al suo luogo di origine (2Sa 3:2, 3; 17:27; 23:25-39; Na 1:1; At 13:1; 21:29). Gesù visse buona parte della sua vita a Nazaret, in Galilea, quindi era naturale usare questo appellativo nei suoi confronti. Gesù venne chiamato “il Nazareno” in varie situazioni e da persone diverse (Mr 1:23, 24; 10:46, 47; 14:66-69; 16:5, 6; Lu 24:13-19; Gv 18:1-7). Gesù stesso accettò e usò questo nome (Gv 18:5-8; At 22:6-8). La scritta in ebraico, in latino e in greco che Pilato pose sul palo di tortura diceva: “Gesù il Nazareno, il re dei giudei” (Gv 19:19, 20). Dalla Pentecoste del 33 in poi gli apostoli, e anche altri, spesso parlarono di Gesù come del Nazareno o indicarono che era di Nazaret (At 2:22; 3:6; 4:10; 6:14; 10:38; 26:9; vedi anche approfondimenti a Mt 2:23).
il Nazareno Vedi approfondimento a Mr 10:47.
non sentivano la voce O “non comprendevano la voce”. In At 9:3-9, Luca descrive quello che successe a Paolo sulla strada per Damasco. I due brani forniscono insieme un quadro completo di come andarono le cose. Come spiegato nell’approfondimento ad At 9:7, gli uomini che erano con Paolo sentirono “il suono di una voce”, ma a quanto pare non furono in grado di distinguere le parole pronunciate; non riuscirono a sentire quella voce nel modo in cui la sentì Paolo. Questo è in armonia con l’uso che viene fatto del termine greco per “sentire” in At 22:7, dove Paolo dice: “Sentii una voce”. In quel versetto il testo originale lascia intendere che Paolo fu in grado sia di distinguere che di capire le parole pronunciate. Al contrario, quelli che viaggiavano con Paolo non afferrarono il messaggio che gli fu trasmesso, forse perché la voce era smorzata o distorta. A quanto pare è in questo senso che “non sentivano la voce”. (Confronta Mr 4:33; 1Co 14:2, dove lo stesso termine greco per “sentire” è reso “capire”.)
sentivano [...] il suono di una voce In At 22:6-11 è Paolo stesso a raccontare quello che successe sulla strada per Damasco. L’episodio narrato da Paolo e la descrizione contenuta qui in At 9:7 forniscono insieme un quadro completo di come andarono le cose. Nelle due narrazioni il termine greco utilizzato è lo stesso, ma ha funzioni diverse. La parola greca fonè può essere tradotta sia “suono” che “voce”. Qui è al genitivo ed è resa “suono di una voce”. In At 22:9, invece, è all’accusativo ed è resa “voce”. Si può quindi concludere che gli uomini che erano con Paolo sentirono il suono di una voce, ma a quanto pare non furono in grado di distinguere e di capire le parole pronunciate; non riuscirono a sentire quella voce nel modo in cui la sentì Paolo (At 26:14; vedi approfondimento ad At 22:9).
recupera la vista Lett. “guarda in alto”. Il verbo greco significa fondamentalmente “levare lo sguardo verso l’alto” (Mt 14:19; Lu 19:5), ma può anche trasmettere l’idea di ottenere la vista per la prima volta (Gv 9:11, 15, 18) o recuperarla (Mr 10:52; Lu 18:42; At 9:12).
purificati dai tuoi peccati invocando il suo nome Una persona viene purificata dai suoi peccati non semplicemente con l’acqua del battesimo, ma grazie al fatto che invoca il nome di Gesù. Questo richiede che eserciti fede in Gesù e dimostri questa fede con le opere che caratterizzano i cristiani (At 10:43; Gc 2:14, 18; vedi approfondimento a Ro 10:13).
invocherà il nome di Geova Invocare il nome di Geova implica molto più che semplicemente conoscere e usare il nome proprio di Dio. L’espressione “invocare il nome di [qualcuno]” affonda le sue radici nelle Scritture Ebraiche. Paolo qui cita Gle 2:32, il cui contesto dà risalto al vero pentimento e alla fiducia nel perdono di Geova (Gle 2:12, 13). Alla Pentecoste del 33, Pietro citò la stessa profezia di Gioele ed esortò chi lo ascoltava a pentirsi e ad agire per ottenere l’approvazione di Geova (At 2:21, 38). Altri passi mostrano che invocare il nome di Dio comporta conoscere Dio, confidare in lui e ricercarne l’aiuto e la guida (Sl 20:7; 99:6; 116:4; 145:18). In alcuni contesti, invocare il nome di Geova può significare dichiarare il suo nome e le sue qualità (Gen 12:8; confronta Eso 34:5, dove la stessa espressione ebraica è resa “dichiarò il nome di Geova”). Nel versetto successivo a Ro 10:13, Paolo mette in relazione l’invocare Dio con il riporre fede in lui (Ro 10:14).
estasi Il termine greco èkstasis è composto da ek (“fuori”) e stàsis (“posizione”, “stato”). Si riferisce a una condizione mentale di allontanamento dalla realtà dovuta a meraviglia, a sbigottimento o a una visione da parte di Dio. È reso “gioia” in Mr 5:42, “stupore” in Lu 5:26 e “sopraffatte dall’emozione” in Mr 16:8. Nel libro degli Atti il termine è associato a un intervento di tipo divino. Pare che a volte lo spirito santo agisse sulla mente della persona sovrapponendovi una visione o un’immagine della volontà di Dio mentre la persona era in uno stato di profonda concentrazione o in una condizione simile al sonno. La persona in estasi non si rendeva conto di ciò che la circondava fisicamente ed era nella condizione di ricevere una visione. (Vedi approfondimento ad At 22:17.)
caddi in estasi Per una trattazione del termine greco èkstasis, qui reso “estasi”, vedi approfondimento ad At 10:10. In alcune traduzioni in ebraico delle Scritture Greche Cristiane (definite J14, 17, 22 nell’App. C4) qui si legge: “La mano di Geova fu su di me”, e in un’altra (definita J18) si legge: “Lo spirito di Geova mi avvolse”.
mi sarete testimoni Essendo ebrei devoti, i primi discepoli di Gesù erano già testimoni di Geova e attestavano che Geova è il solo vero Dio (Isa 43:10-12; 44:8). Ma ora dovevano essere testimoni sia di Geova sia di Gesù. Dovevano far conoscere un aspetto nuovo del proposito di Geova: il ruolo essenziale che Gesù ha nel santificare il nome di Geova mediante il Suo Regno messianico. Se si esclude il Vangelo di Giovanni, Atti è il libro biblico che usa più volte le parole greche solitamente tradotte “testimone” (màrtys), “rendere testimonianza” (martyrèo), “rendere completa testimonianza” (diamartỳromai), e termini affini. (Vedi approfondimento a Gv 1:7.) Il concetto di essere testimoni e di rendere completa testimonianza in merito ai propositi di Dio — inclusi il suo Regno e il ruolo essenziale di Gesù — fa da filo conduttore del libro degli Atti (At 2:32, 40; 3:15; 4:33; 5:32; 8:25; 10:39; 13:31; 18:5; 20:21, 24; 22:20; 23:11; 26:16; 28:23). Alcuni cristiani del I secolo resero testimonianza, o fornirono conferme, in relazione a fatti storici riguardanti la vita, la morte e la risurrezione di Gesù a cui avevano assistito in prima persona (At 1:21, 22; 10:40, 41). Coloro che in seguito riposero fede in Gesù resero testimonianza proclamando la portata che avevano la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione (At 22:15; vedi approfondimento a Gv 18:37).
tuo testimone Il termine greco per “testimone”, màrtys, si riferisce a chi assiste a un fatto. Alcuni cristiani del I secolo poterono rendere testimonianza, o fornire conferme, in relazione a fatti storici riguardanti la vita, la morte e la risurrezione di Gesù perché vi avevano assistito in prima persona (At 1:21, 22; 10:40, 41). Coloro che invece riposero fede in Gesù in seguito resero testimonianza proclamando la portata che avevano la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione (At 22:15). Paolo usò il termine con questo secondo significato quando disse che Stefano era stato “testimone” di Gesù. Davanti al Sinedrio, Stefano aveva dato una vigorosa testimonianza riguardo a Gesù. Inoltre fu il primo a testimoniare di aver visto, in una speciale visione, Gesù tornato in cielo e alla destra di Dio, come era stato profetizzato in Sl 110:1 (At 7:55, 56). Per i cristiani, rendere testimonianza spesso significava affrontare opposizione, prigionia, percosse e persino la morte, come nel caso di Stefano, Giacomo e altri. Ecco perché màrtys finì per designare chi testimonia a costo della vita, un martire, ovvero chi è disposto a morire pur di non rinunciare alla propria fede. In questo senso Stefano fu il primo martire cristiano, di cui fu sparso il sangue a motivo della testimonianza che rese riguardo a Cristo. (Vedi approfondimento ad At 1:8.)
ufficiale in comando Il termine greco chilìarchos (chiliarca) letteralmente significa “comandante di 1.000 [soldati]”. Si riferisce al tribuno militare, un comandante romano. In ogni legione c’erano sei tribuni. La legione però non era divisa in sei contingenti distinti; piuttosto, ciascun tribuno comandava l’intera legione per un sesto del tempo. Questo ufficiale aveva grande autorità; poteva anche nominare i centurioni e assegnare loro gli incarichi da svolgere. Il termine greco si può riferire anche a qualsiasi alto ufficiale dell’esercito. Quando Gesù fu arrestato, insieme ai soldati romani c’era un ufficiale in comando.
comandante Il termine greco chilìarchos (chiliarca) letteralmente significa “comandante di 1.000 [soldati]”. Si riferisce al tribuno militare, un comandante romano. (Vedi approfondimento a Gv 18:12.) Verso il 56 Claudio Lisia era il comandante militare della guarnigione di Gerusalemme (At 23:22, 26). Come si legge nei capitoli da 21 a 24 di Atti, fu lui a liberare Paolo sia dalla folla che dal Sinedrio in tumulto e anche a scrivere una lettera esplicativa al governatore Felice quando Paolo fu mandato segretamente a Cesarea.
Mi appello a Cesare! Nella Bibbia questa è la terza volta che Paolo si avvale dei suoi diritti di cittadino romano. (Per le altre due occasioni, vedi approfondimenti ad At 16:37; 22:25.) Ci si poteva appellare a Cesare non solo dopo una condanna, ma anche prima, durante il processo. Festo aveva dimostrato di non voler decidere personalmente la questione, e un processo a Gerusalemme non dava nessuna garanzia di giustizia. Paolo fece perciò formale richiesta di essere giudicato dalla più alta corte dell’impero. Pare che in alcune circostanze l’appello potesse essere negato, per esempio nel caso di ladri, pirati o sediziosi colti in flagrante. Forse per questo Festo conferì “con i suoi consiglieri” prima di accogliere l’appello (At 25:12). La successiva udienza alla presenza di Erode Agrippa II, che era lì in visita, servì a Festo per avere informazioni più precise sul caso di Paolo da trasmettere ad “Augusto”, Nerone (At 25:12-27; 26:32; 28:19). L’appello di Paolo servì a un altro scopo: arrivare a Roma, secondo l’intenzione espressa in precedenza (At 19:21). La promessa profetica che Gesù aveva fatto a Paolo e il messaggio angelico ricevuto in seguito confermano entrambi l’intervento divino nella vicenda (At 23:11; 27:23, 24).
centurione Ufficiale dell’esercito romano che aveva il comando di una centuria, unità di circa 100 soldati. (Vedi Glossario.)
un romano Cioè un cittadino romano. Questa è la seconda delle tre occasioni riportate nella Bibbia in cui Paolo si avvalse dei suoi diritti di cittadino romano. Di solito Roma non interferiva molto negli affari interni degli ebrei. Nel caso di Paolo, comunque, i romani intervennero non solo perché era scoppiata una rivolta quando era andato nel tempio ma anche perché era cittadino romano. La cittadinanza garantiva determinati privilegi che venivano riconosciuti in tutto l’impero. Ad esempio, era illegale trattenere o percuotere un cittadino romano senza che fosse stato prima condannato, dato che un trattamento del genere era riservato solo agli schiavi. (Per le altre due occasioni, vedi approfondimenti ad At 16:37; 25:11.)
romani Cioè cittadini romani. Paolo e a quanto pare anche Sila erano cittadini romani. La legge romana stabiliva che un cittadino aveva sempre diritto a un processo equo e che non doveva mai essere punito pubblicamente senza essere stato prima condannato. Chi possedeva la cittadinanza romana godeva di certi diritti e privilegi all’interno di tutto il territorio dell’impero. Un cittadino romano era soggetto alla legge romana, non a quella delle singole province. Quando veniva accusato, poteva accettare di essere giudicato secondo le leggi locali, ma conservava comunque il diritto di essere udito da un tribunale romano. In caso di reato capitale, poteva appellarsi all’imperatore. L’apostolo Paolo predicò estesamente nell’impero romano. La Bibbia riporta tre occasioni in cui si avvalse dei suoi diritti di cittadino romano. La prima è questa: qui a Filippi Paolo dice ai magistrati della città che picchiandolo hanno violato i suoi diritti. (Per le altre due occasioni, vedi approfondimenti ad At 22:25; 25:11.)
ho acquistato questa cittadinanza O “ho acquistato questi diritti di cittadino”. Come mostra questo brano, in certi casi era possibile ottenere la cittadinanza romana pagando una somma di denaro. Paolo disse a Claudio Lisia che ce l’aveva di nascita, il che indica che un suo antenato di sesso maschile doveva averla acquisita. C’erano anche altri modi per ottenere la cittadinanza romana. Un singolo individuo o tutti gli abitanti liberi di una città o di una regione potevano ricevere un certo tipo di cittadinanza come ricompensa da parte dell’imperatore. Uno schiavo poteva ottenerla dopo essersi comprato la libertà da un cittadino romano o essere stato da lui affrancato. Veniva inoltre concessa ai veterani che erano stati ausiliari dell’esercito romano. Oppure la si poteva ereditare. Nel I secolo era improbabile che ci fossero molti cittadini romani in Giudea. Solo nel III secolo la cittadinanza romana venne estesa agli abitanti di tutte le province.
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Nel I secolo la città di Damasco probabilmente aveva una pianta simile a quella riprodotta qui. Il commercio era fiorente, e le acque del fiume Barada (l’Abana di 2Re 5:12) rendevano l’area intorno alla città simile a un’oasi. Damasco contava varie sinagoghe. Saulo venne in questa città con l’intenzione di arrestare “tutti gli appartenenti alla Via”, espressione usata per descrivere i discepoli di Gesù (At 9:2; 19:9, 23; 22:4; 24:22). Ma sulla via di Damasco gli apparve il glorificato Gesù. Dopo questo episodio, Saulo rimase per un periodo a Damasco, nella casa di un uomo di nome Giuda che viveva sulla strada chiamata Diritta (At 9:11). In una visione, Gesù diresse il discepolo Anania alla casa di Giuda per far recuperare la vista a Saulo, che in seguito fu battezzato. E così, invece di arrestare gli ebrei cristiani, Saulo divenne uno di loro. Cominciò a predicare la buona notizia proprio nelle sinagoghe di Damasco. Dopo aver viaggiato fino all’Arabia e poi di nuovo a Damasco, Saulo fece ritorno a Gerusalemme, probabilmente intorno all’anno 36 (At 9:1-6, 19-22; Gal 1:16, 17).
A. Damasco
1. Strada per Gerusalemme
2. Strada chiamata Diritta
3. Agorà
4. Tempio di Giove
5. Teatro
6. Odeon (?)
B. Gerusalemme

In questa foto si può vedere una delle due tavolette di bronzo di cui era composto un documento rilasciato nel 79. Questo documento concedeva la cittadinanza romana a un marinaio prossimo al congedo, alla moglie e al figlio. Le due tavolette erano legate insieme e sigillate. Alcuni diventavano cittadini romani già alla nascita, altri acquisivano tale cittadinanza nel corso della loro vita. (Vedi approfondimento a At 22:28.) In entrambi i casi, i documenti attestanti la cittadinanza erano molto preziosi dal momento che, per ottenere certi privilegi, poteva essere necessario dimostrare di essere cittadino romano. Paolo comunque menzionò una cittadinanza di gran lunga più preziosa, una cittadinanza che “è nei cieli” (Flp 3:20).

La corte suprema giudaica era chiamata Grande Sinedrio ed era composta da 71 membri; aveva sede a Gerusalemme. (Vedi Glossario, “Sinedrio”.) Secondo la Mishnàh, il Sinedrio sedeva a semicerchio su tre file; due segretari registravano le decisioni della corte. Alcuni degli aspetti architettonici di questa immagine si basano su una struttura scoperta a Gerusalemme e considerata da alcuni l’aula di consiglio del I secolo. (Vedi App. B12, cartina “Gerusalemme e dintorni”.)
1. Sommo sacerdote
2. Membri del Sinedrio
3. Accusato
4. Segretari