Atti degli Apostoli 2:1-47
Approfondimenti
Pentecoste Il termine greco pentekostè (che significa “50º [giorno]”) è usato nelle Scritture Greche Cristiane per indicare quella che le Scritture Ebraiche chiamano “Festa della Mietitura” (Eso 23:16) e “Festa delle Settimane” (Eso 34:22). Questa festa si celebrava alla fine di un periodo di sette settimane durante le quali si mieteva prima l’orzo e poi il grano. La Pentecoste veniva celebrata il 50º giorno a partire dal 16 nisan, giorno in cui veniva offerto un covone delle primizie dell’orzo (Le 23:15, 16). Nel calendario ebraico cadeva il 6 sivan. (Vedi App. B15.) Istruzioni relative a questa festa si trovano in Le 23:15-21, Nu 28:26-31 e De 16:9-12. La Pentecoste richiamava a Gerusalemme tantissimi ebrei e proseliti provenienti da paesi lontani. Aveva l’obiettivo di promuovere l’ospitalità e l’altruismo, a prescindere dalla posizione o dal retaggio di chi ne era oggetto, che si trattasse di liberi, schiavi, poveri, orfani, vedove, leviti o stranieri residenti (De 16:10, 11). Questo fece della Pentecoste del 33 a Gerusalemme l’occasione ideale per la nascita della congregazione cristiana, che aveva la missione di rendere testimonianza a tutti “delle magnifiche cose di Dio” (At 1:8; 2:11). Secondo la tradizione ebraica, la Pentecoste corrisponde al giorno in cui fu data la Legge presso il monte Sinai, quando Israele fu appartato come nazione eletta di Dio. Era stato all’inizio del terzo mese (sivan) che gli israeliti si erano radunati presso il monte Sinai e avevano ricevuto la Legge (Eso 19:1). Come Mosè aveva fatto da mediatore per introdurre Israele nel patto della Legge, così Gesù Cristo quale Mediatore dell’Israele spirituale stava per introdurre questa nuova nazione nel nuovo patto.
lingue Nella Bibbia il termine greco glòssa può riferirsi alla “lingua” intesa come organo del linguaggio (Mr 7:33; Lu 1:64; 16:24). Ma in senso metaforico può indicare un idioma o un gruppo di persone che parlano un determinato idioma (Ri 5:9; 7:9; 13:7). Questo termine greco ricorre anche in At 2:3, dove si parla della comparsa di “lingue come di fuoco”. Quindi il versamento dello spirito santo fu evidente tramite queste “lingue” che si posarono sui discepoli e tramite la capacità di questi ultimi di parlare lingue diverse.
lingue Nella Bibbia il termine greco glòssa può riferirsi alla “lingua” intesa come organo del linguaggio (Mr 7:33; Lu 1:64; 16:24). Ma in senso metaforico può indicare un idioma o un gruppo di persone che parlano un determinato idioma (Ri 5:9; 7:9; 13:7). Questo termine greco ricorre anche in At 2:3, dove si parla della comparsa di “lingue come di fuoco”. Quindi il versamento dello spirito santo fu evidente tramite queste “lingue” che si posarono sui discepoli e tramite la capacità di questi ultimi di parlare lingue diverse.
nella propria madrelingua Lett. “nella nostra propria lingua nella quale siamo nati”. Qui il termine greco per “lingua” è diàlektos. (Vedi approfondimento ad At 2:4.) Può darsi che molti di quelli che sentirono i discepoli parlassero una lingua internazionale, forse il greco. Essendo “giudei devoti”, è anche probabile che fossero in grado di capire le funzioni che si svolgevano in ebraico nel tempio di Gerusalemme (At 2:5). Ma sentire la buona notizia nella lingua che conoscevano sin dall’infanzia catturò la loro attenzione.
provincia dell’Asia Vedi Glossario, “Asia”.
proselito O “convertito”. Il termine greco prosèlytos designa un non ebreo convertitosi al giudaismo; nel caso degli uomini, la conversione implicava la circoncisione.
proseliti Vedi approfondimento a Mt 23:15.
vino dolce O “vino nuovo”. Il termine greco glèukos, che nelle Scritture Greche Cristiane ricorre solo qui, si riferisce a mosto dolce in fase di fermentazione.
la terza ora del giorno Cioè circa le 9 del mattino. Nel I secolo gli ebrei dividevano la giornata in 12 ore, iniziando dall’alba, verso le 6 (Gv 11:9). Quindi la terza ora corrispondeva all’incirca alle 9 del mattino, la sesta all’incirca a mezzogiorno e la nona all’incirca alle 3 del pomeriggio. Dal momento che la gente non aveva orologi precisi, le indicazioni temporali di solito erano approssimative (Gv 1:39; 4:6; 19:14; At 10:3, 9).
ogni essere umano O “ogni carne”, “tutti”. La stessa espressione greca compare anche in Lu 3:6. Lì si cita Isa 40:5, dove è usata un’espressione ebraica che ha lo stesso significato. (Confronta approfondimento a Gv 1:14.)
persone di ogni tipo Gesù dichiara che attirerà a sé persone provenienti da ogni ambiente, indipendentemente dalla nazionalità, dalla razza o dalle condizioni economiche (At 10:34, 35; Ri 7:9, 10; vedi approfondimento a Gv 6:44). È degno di nota che, in questa occasione, “dei greci” che erano al tempio per adorare vollero vedere Gesù. (Vedi approfondimento a Gv 12:20.) Molte traduzioni rendono il termine greco pàs in un modo che dà l’idea che infine Gesù attirerà a sé tutti gli esseri umani. Quest’idea, però, non è in armonia con il resto delle Scritture ispirate (Sl 145:20; Mt 7:13; Lu 2:34; 2Ts 1:9). È vero che pàs significa letteralmente “tutto” o “ogni” (Ro 5:12), ma Mt 5:11 e At 10:12 mostrano chiaramente che può significare “ogni tipo”, “ogni genere”; ci sono anche altre traduzioni che in questi versetti lo traducono con “di ogni sorta”, “di tutti i tipi” (Gv 1:7; 1Tm 2:4).
Profetizzaci [...] Chi ti ha colpito? Qui “profetizzare” non ha il senso di predire il futuro ma di identificare qualcuno (in questo caso la persona che lo aveva colpito) per rivelazione divina. I passi paralleli di Mr 14:65 e Lu 22:64 indicano che i persecutori di Gesù gli avevano coperto la faccia, il che spiega perché lo beffeggiavano chiedendogli di identificare chi lo aveva colpito.
Profetizza! Qui “profetizzare” non implica predire il futuro ma piuttosto identificare qualcuno per rivelazione divina. Il contesto mostra che i persecutori di Gesù gli avevano coperto la faccia, e il passo parallelo di Mt 26:68 riporta per intero lo scherno che gli rivolgevano: “Profetizzaci, Cristo. Chi ti ha colpito?” In questo modo sfidavano Gesù: bendato, avrebbe dovuto identificare chi lo stava colpendo. (Vedi approfondimenti a Mt 26:68; Lu 22:64).
Profetizza! Qui “profetizzare” non implica predire il futuro ma piuttosto identificare qualcuno per rivelazione divina. Il contesto mostra che i persecutori di Gesù gli avevano coperto la faccia. Stavano quindi sfidando Gesù: bendato, avrebbe dovuto identificare chi lo stava colpendo. (Vedi approfondimento a Mt 26:68.)
anziani Nella Bibbia il termine greco presbỳteros si riferisce principalmente a coloro che hanno una posizione di autorità e di responsabilità all’interno di una comunità o di una nazione. Anche se a volte denota l’età anagrafica (come in Lu 15:25 e At 2:17), presbỳteros non indica solo chi è avanti con gli anni. Qui si riferisce ai capi della nazione giudaica, spesso menzionati insieme a capi sacerdoti e scribi. Il Sinedrio era composto da una rappresentanza di questi tre gruppi (Mt 21:23; 26:3, 47, 57; 27:1, 41; 28:12; vedi Glossario).
Negli ultimi giorni Citando la profezia di Gioele, sotto ispirazione Pietro usa l’espressione “negli ultimi giorni” anziché quella resa “dopo questo”, che si trova nell’originale ebraico e nella Settanta (Gle 2:28 [3:1, LXX]). La profezia di Gioele si era adempiuta con il versamento dello spirito santo alla Pentecoste. Perciò l’uso da parte di Pietro delle parole “negli ultimi giorni” indica che quel particolare periodo di tempo era già iniziato e avrebbe preceduto “il grande e glorioso giorno di Geova”. A quanto pare quel “giorno di Geova” avrebbe segnato la fine degli “ultimi giorni” (At 2:20). Pietro si stava rivolgendo a ebrei naturali e proseliti, quindi un primo adempimento delle sue parole ispirate doveva riguardarli. Quello che disse sembra indicare che gli ebrei stavano vivendo “negli ultimi giorni” di quel sistema di cose in cui l’adorazione aveva il suo centro a Gerusalemme. In precedenza Gesù stesso aveva predetto la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, cosa che si verificò nel 70 (Lu 19:41-44; 21:5, 6).
mio spirito Il termine greco pnèuma qui si riferisce allo spirito santo, o forza attiva, di Dio. In Gle 2:28, qui citato, viene usata la corrispondente parola ebraica rùach. Sia il termine ebraico che quello greco trasmettono fondamentalmente l’idea di qualcosa che è invisibile agli occhi umani e che rivela forza in movimento. (Vedi Glossario, “spirito”.)
ogni tipo di persona L’espressione greca originale, che potrebbe essere letteralmente tradotta “ogni carne”, è composta da pàs (“ogni”, “tutto”) e sàrx (spesso reso “carne” in riferimento, come qui, a esseri umani in vita). In genere indica tutta l’umanità. (Vedi approfondimento a Gv 17:2.) Ma in questo contesto ha un senso più ristretto. Dio non versò il suo spirito su tutti gli esseri umani sulla terra, né tanto meno su tutti gli esseri umani in Israele, quindi qui questa espressione non si riferisce a tutta l’umanità nel suo complesso. Si riferisce piuttosto a persone di ogni tipo, senza distinzioni di alcun genere. Dio versò spirito santo su ‘figli e figlie, giovani e vecchi, servi e serve’, ovvero persone di ogni tipo (At 2:17, 18). Un uso simile della parola greca pàs si riscontra in 1Tm 2:3, 4, secondo cui Dio “vuole che ogni tipo di persona sia salvata”. (Vedi approfondimento a Gv 12:32.)
profetizzeranno Il termine greco profetèuo alla lettera significa “proferire”. Nelle Scritture si riferisce alla proclamazione di messaggi di origine divina. Anche se spesso implica l’idea di predire il futuro, questo non è il suo significato fondamentale. Il termine si può riferire anche all’identificare qualcosa per rivelazione divina. (Vedi approfondimenti a Mt 26:68; Mr 14:65; Lu 22:64.) In questo contesto lo spirito santo spinse alcuni a profetizzare. Proclamando le “magnifiche cose” che Geova aveva fatto e doveva ancora fare, sarebbero stati dei portavoce dell’Altissimo (At 2:11). La parola ebraica resa “profetizzare” trasmette un’idea simile. Per esempio, Eso 7:1 dice che Aronne sarebbe stato il “profeta” di Mosè, nel senso che sarebbe stato il suo portavoce e non che avrebbe predetto eventi futuri.
vecchi O “anziani”. Il termine greco presbỳteros probabilmente qui si riferisce a uomini avanti con gli anni, in antitesi con i “giovani” menzionati poco prima nel versetto. In altri contesti lo stesso termine viene usato in riferimento a uomini che hanno una posizione di autorità e di responsabilità all’interno di una comunità o di una nazione (At 4:5; 11:30; 14:23; 15:2; 20:17; vedi approfondimento a Mt 16:21).
prodigi O “portenti”, “presagi”. Nelle Scritture Greche Cristiane il termine originale tèras ricorre sempre insieme a semèion (“segno”), ed entrambi i termini vengono usati al plurale (Mt 24:24; Gv 4:48; At 7:36; 14:3; 15:12; 2Co 12:12). Fondamentalmente tèras si riferisce a qualsiasi cosa che impressiona o suscita meraviglia. Quando si riferisce chiaramente a qualcosa che fa presagire quello che succederà in futuro, ha anche il senso di “presagio”.
Geova Nell’originale ebraico di Gle 2:31, qui citato, compare il nome divino trascritto con quattro consonanti ebraiche (traslitterate YHWH). (Vedi App. C.)
Geova Nell’originale ebraico di Gle 2:32, qui citato, compare il nome divino trascritto con quattro consonanti ebraiche (traslitterate YHWH). (Vedi App. C.)
il Nazareno Appellativo usato per Gesù e successivamente per i suoi discepoli (At 24:5). Dato che erano molti gli ebrei che si chiamavano Gesù, era comune aggiungere una specifica che permettesse di identificare la persona; nei tempi biblici era consuetudine associare qualcuno al suo luogo di origine (2Sa 3:2, 3; 17:27; 23:25-39; Na 1:1; At 13:1; 21:29). Gesù visse buona parte della sua vita a Nazaret, in Galilea, quindi era naturale usare questo appellativo nei suoi confronti. Gesù venne chiamato “il Nazareno” in varie situazioni e da persone diverse (Mr 1:23, 24; 10:46, 47; 14:66-69; 16:5, 6; Lu 24:13-19; Gv 18:1-7). Gesù stesso accettò e usò questo nome (Gv 18:5-8; At 22:6-8). La scritta in ebraico, in latino e in greco che Pilato pose sul palo di tortura diceva: “Gesù il Nazareno, il re dei giudei” (Gv 19:19, 20). Dalla Pentecoste del 33 in poi gli apostoli, e anche altri, spesso parlarono di Gesù come del Nazareno o indicarono che era di Nazaret (At 2:22; 3:6; 4:10; 6:14; 10:38; 26:9; vedi anche approfondimenti a Mt 2:23).
prodigi O “portenti”, “presagi”. Nelle Scritture Greche Cristiane il termine originale tèras ricorre sempre insieme a semèion (“segno”), ed entrambi i termini vengono usati al plurale (Mt 24:24; Gv 4:48; At 7:36; 14:3; 15:12; 2Co 12:12). Fondamentalmente tèras si riferisce a qualsiasi cosa che impressiona o suscita meraviglia. Quando si riferisce chiaramente a qualcosa che fa presagire quello che succederà in futuro, ha anche il senso di “presagio”.
il Nazareno Vedi approfondimento a Mr 10:47.
prodigi O “portenti”, “presagi”. I miracoli che Dio permise a Gesù di fare servirono a dimostrare che era stato lui a mandarlo. Inoltre le risurrezioni e le guarigioni miracolose che Gesù compì mostrarono, o fecero presagire, quello che avrebbe fatto su scala più vasta in futuro. (Vedi approfondimento ad At 2:19.)
tutta la volontà di Dio O “l’intero proposito [o “consiglio”] di Dio”. Qui si fa riferimento a ogni cosa che Dio si è proposto di fare per mezzo del suo Regno, incluso tutto quello che ha deciso essere essenziale per la salvezza (At 20:25). Il termine greco boulè può anche essere reso “guida”, “esortazione” (Lu 7:30, nt.) e “proposito” (Eb 6:17).
volontà O “consiglio”. Il termine greco boulè può anche essere reso “guida”, “esortazione” (Lu 7:30, nt.) e “proposito” (Eb 6:17). (Vedi approfondimento ad At 20:27.)
morsa della morte Lett. “dolori della morte”. Anche se la Bibbia dice chiaramente che i morti non si rendono conto di nulla e non provano dolore (Sl 146:4; Ec 9:5, 10), qui viene detto che la “morte” provoca “dolori”. Probabilmente l’espressione “dolori della morte” è riconducibile al fatto che la morte viene presentata come qualcosa di amaro e straziante (1Sa 15:32, nt.; Sl 55:4; Ec 7:26). È così non solo per la penosa agonia che di solito la precede (Sl 73:4, 5) ma anche per la cessazione di qualsiasi attività e per la perdita della libertà dovute alla sua morsa paralizzante (Sl 6:5; 88:10). A quanto pare è in questo senso che la risurrezione liberò Gesù dai “dolori della morte”, svincolandolo dalla sua sconvolgente morsa immobilizzante. Il termine greco per “dolori” (odìn) altrove è usato per indicare le doglie (1Ts 5:3), ma si può riferire in senso più ampio a pena, calamità o sofferenza (Mt 24:8). L’espressione “dolori della morte” si trova nella Settanta in 2Sa 22:6 e Sl 18:4 (17:5, LXX), dove il testo ebraico masoretico presenta la lezione “funi della Tomba” e “funi della morte”. È interessante che negli antichi manoscritti ebraici, che erano scritti senza vocali, il termine chèvel — che può essere reso “fune”, “corda”, “legame” — ha le stesse consonanti della parola ebraica per “dolore”. Questo potrebbe spiegare perché nella Settanta si trova la resa “funi”. Sia “dolori della morte” che “funi della morte” trasmettono fondamentalmente lo stesso concetto, ovvero che la morte è qualcosa di amaro e straziante.
Geova Nell’originale ebraico di Sl 16:8, qui citato, compare il nome divino trascritto con quattro consonanti ebraiche (traslitterate YHWH). (Vedi App. C.)
io Lett. “la mia carne”. Pietro introduce questa citazione del Sl 16 dicendo: “Davide [...] dice di lui”, cioè del Messia, Gesù (At 2:25). Qui in At 2:26 e in Sl 16:9 nell’originale greco ed ebraico è presente la parola “carne”, che può riferirsi al corpo di una persona o alla persona stessa. Per quanto sapesse che sarebbe stato messo a morte come sacrificio di riscatto, Gesù visse nella speranza: sapeva che il Padre lo avrebbe risuscitato, che il suo sacrificio sarebbe riuscito a riscattare l’umanità e che la sua carne, ovvero il suo corpo, non avrebbe subìto la corruzione, cioè la decomposizione (At 2:27, 31).
non mi lascerai O “non lascerai la mia anima”. In questa citazione di Sl 16:10 il termine greco psychè traduce l’ebraico nèfesh, termini tradizionalmente resi “anima”. Il salmista aveva usato questa parola in riferimento a sé stesso. Il giorno di Pentecoste, quando parlò agli ebrei della risurrezione del Cristo, Pietro applicò questo salmo di Davide a Gesù (At 2:24, 25; vedi Glossario, “anima”, e App. A2).
Tomba O “Ades”. Il termine greco hàides (“Ades”), che forse significa “luogo non visto”, ricorre 10 volte nelle Scritture Greche Cristiane. (Vedi Mt 11:23; 16:18; Lu 10:15; 16:23; At 2:27, 31; Ri 1:18; 6:8; 20:13, 14.) Questo versetto cita Sl 16:10, dove si trova il corrispondente termine ebraico sheʼòhl (“Sceol”), anch’esso tradotto “Tomba”. In genere la Settanta usa il greco “Ades” come equivalente dell’ebraico “Sceol”. Nelle Scritture entrambi i termini si riferiscono al luogo simbolico in cui si trovano i morti; le lingue originali usano altre parole per indicare la tomba di un singolo individuo. In alcune traduzioni in ebraico delle Scritture Greche Cristiane (definite J7, 8, 11, 12, 14-18, 22 nell’App. C4) qui si trova la parola “Sceol”. (Vedi App. A2.)
alla tua presenza O “davanti alla tua faccia”. Lett. “con la tua faccia”. In questa citazione di Sl 16:11 il greco traduce letteralmente l’ebraico. L’espressione ebraica “con la faccia di qualcuno” è un modo di dire che significa “alla presenza di qualcuno”.
Dio Qui i manoscritti greci attualmente disponibili usano il termine Theòs, “Dio”. È degno di nota che alcune traduzioni in ebraico delle Scritture Greche Cristiane (definite J7, 8, 10 nell’App. C4) qui riportano il Tetragramma.
uno dei suoi discendenti A Davide fu promesso che uno dei suoi discendenti sarebbe diventato la “discendenza” messianica preannunciata in Gen 3:15 (2Sa 7:12, 13; Sl 89:3, 4; 132:11). Questa promessa si adempì in Gesù; sia la madre che il padre adottivo, infatti, discendevano dal re Davide. L’espressione greca qui resa “suoi discendenti” rispecchia un modo di dire ebraico che alla lettera è “frutto dei suoi lombi”. Nel corpo umano i lombi sono la sede degli organi riproduttivi (Gen 35:11, nt.; 1Re 8:19, nt.). Ai discendenti di una persona ci si riferisce anche con l’espressione “frutto del grembo [o “ventre”, “corpo”]”, e ci sono altre espressioni simili in cui “frutto” indica il prodotto della riproduzione umana (Gen 30:2, nt.; De 7:13, nt.; Sl 127:3; La 2:20, nt.; Lu 1:42).
Tomba O “Ades”. Il termine greco hàides (“Ades”), che forse significa “luogo non visto”, ricorre 10 volte nelle Scritture Greche Cristiane. (Vedi Mt 11:23; 16:18; Lu 10:15; 16:23; At 2:27, 31; Ri 1:18; 6:8; 20:13, 14.) Questo versetto cita Sl 16:10, dove si trova il corrispondente termine ebraico sheʼòhl (“Sceol”), anch’esso tradotto “Tomba”. In genere la Settanta usa il greco “Ades” come equivalente dell’ebraico “Sceol”. Nelle Scritture entrambi i termini si riferiscono al luogo simbolico in cui si trovano i morti; le lingue originali usano altre parole per indicare la tomba di un singolo individuo. In alcune traduzioni in ebraico delle Scritture Greche Cristiane (definite J7, 8, 11, 12, 14-18, 22 nell’App. C4) qui si trova la parola “Sceol”. (Vedi App. A2.)
Tomba O “Ades”, cioè il luogo simbolico in cui si trovano i morti. (Vedi approfondimento ad At 2:27 e Glossario.)
la sua carne non avrebbe subìto la corruzione O “il suo corpo non avrebbe subìto la decomposizione”. Geova non permise che il corpo fisico di Gesù si decomponesse e tornasse alla polvere come era accaduto al corpo di Mosè e di Davide, uomini che prefigurarono Cristo (De 34:5, 6; At 2:27; 13:35, 36). Perché Gesù potesse essere “l’ultimo Adamo” (1Co 15:45) e un “riscatto corrispondente per tutti” gli esseri umani (1Tm 2:5, 6; Mt 20:28), il suo corpo carnale doveva essere un corpo umano vero e proprio. Doveva essere perfetto, perché andava presentato a Geova Dio come prezzo per riacquistare quello che Adamo aveva perso (Eb 9:14; 1Pt 1:18, 19). Nessun discendente imperfetto di Adamo avrebbe potuto pagare il necessario prezzo di riscatto (Sl 49:7-9). Per questa ragione Gesù non fu concepito nel modo consueto. Infatti, a quanto pare quando si presentò per essere battezzato, disse a suo Padre: “Mi hai preparato un corpo”, riferendosi al corpo umano perfetto che avrebbe offerto in sacrificio (Eb 10:5). Quando i discepoli andarono alla tomba di Gesù scoprirono che il suo corpo era scomparso; trovarono solo le bende di lino in cui era stato avvolto. Sembra che Geova abbia fatto sparire il corpo fisico del suo amato Figlio prima che iniziasse a decomporsi (Lu 24:3-6; Gv 20:2-9).
Geova Nell’originale ebraico di Sl 110:1, qui citato, compare il nome divino trascritto con quattro consonanti ebraiche (traslitterate YHWH). Ma come viene spiegato nell’App. A5, la maggior parte delle traduzioni della Bibbia non usa il nome di Dio in quello che comunemente viene chiamato Nuovo Testamento, nemmeno quando si tratta di citazioni dalle Scritture Ebraiche. È interessante, comunque, che alcune edizioni del XVII secolo della King James Version (“Bibbia del re Giacomo”) qui e in altri tre punti delle Scritture Greche Cristiane in cui viene citato Sl 110:1 riportano “il SIGNORE” scritto con la prima lettera in maiuscolo e le successive in maiuscoletto (Mt 22:44; Mr 12:36; Lu 20:42). La stessa cosa si riscontra in edizioni posteriori. In questa traduzione della Bibbia “il SIGNORE” è presente nelle Scritture Ebraiche laddove nell’originale ebraico compare il nome divino; perciò la scelta dei traduttori di usare “il SIGNORE” nelle Scritture Greche Cristiane indicherebbe che secondo loro in quei punti ci si riferiva a Geova. È degno di nota anche il fatto che nella New King James Version, pubblicata la prima volta nel 1979, questo uso di “il SIGNORE” fu esteso a tutte le occorrenze di questa parola che si riferiscono al nome divino e che si trovano in citazioni dalle Scritture Ebraiche. (Vedi App. C.)
messo al palo Questa è la prima delle oltre 40 occorrenze del verbo greco stauròo nelle Scritture Greche Cristiane. Il verbo è affine al sostantivo stauròs, reso “palo di tortura”. (Vedi approfondimenti a Mt 10:38; 16:24; 27:32 e Glossario, “palo”; “palo di tortura”.) Il verbo stauròo è usato nella Settanta in Est 7:9, dove è riportato l’ordine di appendere Aman a un palo alto oltre 20 m. Nel greco classico significava “piantare pali”, “proteggere con palizzate”.
messo al palo Vedi approfondimento a Mt 20:19 e Glossario, “palo”; “palo di tortura”.
battesimo in simbolo di pentimento Lett. “battesimo di pentimento”. Quel battesimo non lavava via i peccati. Piuttosto, dimostrava pubblicamente che le persone che venivano battezzate da Giovanni si erano pentite dei peccati commessi contro la Legge ed erano determinate a tenere una condotta diversa. Questo pentimento contribuiva a condurle al Cristo (Gal 3:24). Giovanni stava quindi preparando un popolo che avrebbe visto “la salvezza” provveduta da Dio (Lu 3:3-6; vedi approfondimenti a Mt 3:2, 8, 11 e Glossario, “battesimo, battezzare”; “pentimento”).
frutti che dimostrino pentimento Azioni che avrebbero dato prova di un cambiamento nel modo di pensare e di comportarsi da parte di coloro che ascoltavano Giovanni (Lu 3:8; At 26:20; vedi approfondimenti a Mt 3:2, 11 e Glossario, “pentimento”).
pentimento Lett. “cambiamento di mente”. (Vedi approfondimenti a Mt 3:2, 8 e Glossario.)
Pentitevi Il termine greco metanoèo qui usato potrebbe essere tradotto letteralmente “cambiare mente”, intendendo un cambiamento nei pensieri, negli atteggiamenti o nelle intenzioni. Precedentemente Giovanni Battista aveva predicato “il battesimo in simbolo di pentimento per il perdono dei peccati”. (Vedi approfondimento a Mr 1:4.) Quel battesimo comportava il pentimento per l’essersi allontanati disubbidendo ai precetti della Legge mosaica, pentimento che preparò i servitori di Dio per quello che sarebbe arrivato (Mr 1:2-4). Ma qui Pietro sottolinea la necessità che, in armonia con il comandamento di Gesù che si trova in Mt 28:19, ogni servitore di Dio si penta e si battezzi nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei propri peccati. Dato che i giudei non avevano accolto Gesù quale Messia, quello di pentirsi e di esercitare fede in lui era un elemento nuovo e di fondamentale importanza per chiedere e ricevere il perdono di Dio. Potevano dimostrare pubblicamente questa fede facendosi immergere in acqua nel nome di Gesù Cristo. In tal modo avrebbero simboleggiato la loro personale dedicazione a Dio mediante Cristo. (Vedi approfondimenti a Mt 3:8, 11 e Glossario, “pentimento”.)
Geova Qui i manoscritti greci attualmente disponibili usano il termine “Signore” (in greco Kỳrios). Comunque, come viene spiegato nell’App. C, ci sono diverse ragioni per ritenere che in origine in questo versetto ci fosse il nome divino e che solo in seguito sia stato sostituito dal titolo Signore. Per questo nel testo del versetto è stato usato il nome Geova. Come mostra At 2:33-38, la promessa che Pietro menziona in questo versetto si riferisce a quello che viene detto in Gle 2:28-32 a proposito del versamento dello spirito santo. Quindi l’espressione per tutti quelli che Geova nostro Dio chiami a sé sembra essere un richiamo alle parole che si trovano alla fine di Gle 2:32, versetto in cui nell’originale ebraico il nome divino compare tre volte e viene specificato che è Geova a chiamare. (Vedi App. C3 introduzione; At 2:39.)
persone O “anime”. Il termine greco psychè, tradizionalmente reso “anima”, qui si riferisce a una persona in vita. (Vedi Glossario, “anima”.)
mangiare Lett. “spezzare il pane”. Il pane era un alimento essenziale della dieta dei popoli dell’antico Medio Oriente; l’espressione finì quindi per riferirsi a qualunque tipo di pasto. Generalmente a quei tempi si preparava pane basso e croccante; per questo spesso veniva spezzato e non tagliato con il coltello. Era quindi normale spezzare il pane per mangiarlo; anche Gesù lo faceva spesso. (Vedi approfondimento a Mt 14:19; vedi anche Mt 15:36; Lu 24:30.) Quando istituì la Cena del Signore, Gesù prese un pane e lo spezzò. Dato che si trattava di un modo comune di dividere il pane, quel gesto di Gesù non ha nessun significato spirituale. (Vedi approfondimento a Mt 26:26.) Alcuni ritengono che, laddove ricorre in certi punti del libro degli Atti, l’espressione originale si riferisca alla celebrazione della Cena del Signore (At 2:42, 46; 20:7, 11). Ogni volta che, però, viene fatta menzione della Cena del Signore, il gesto di spezzare il pane è associato a quello di bere vino da un calice (Mt 26:26-28; Mr 14:22-25; Lu 22:19, 20; 1Co 10:16-21; 11:23-26). I due gesti sono entrambi densi di significato. Quindi, quando lo spezzare il pane è menzionato senza essere associato al bere da un calice, si tratta di un riferimento a un pasto effettivo, non alla Cena del Signore. Inoltre, non c’è niente che lasci intendere che Gesù volesse che la Commemorazione della sua morte venisse osservata più spesso della festa che sostituiva; la Pasqua infatti veniva celebrata solo una volta all’anno.
stare insieme O “condividere”. Il significato basilare del termine greco koinonìa è “condivisione”, “partecipazione”. Nelle sue lettere Paolo usò diverse volte questa parola, che è stata resa anche con “essere uniti” e “avere in comune” (1Co 1:9; nt.; 10:16; 2Co 6:14; 13:14). Qui il contesto dimostra che questo tipo di rapporto implica un’intima amicizia piuttosto che una conoscenza superficiale.
consumare pasti Lett. “spezzare il pane”. (Vedi approfondimento ad At 20:7.)
prodigi O “portenti”, “presagi”. Nelle Scritture Greche Cristiane il termine originale tèras ricorre sempre insieme a semèion (“segno”), ed entrambi i termini vengono usati al plurale (Mt 24:24; Gv 4:48; At 7:36; 14:3; 15:12; 2Co 12:12). Fondamentalmente tèras si riferisce a qualsiasi cosa che impressiona o suscita meraviglia. Quando si riferisce chiaramente a qualcosa che fa presagire quello che succederà in futuro, ha anche il senso di “presagio”.
tutti O “ogni anima”. Il termine greco psychè, tradizionalmente reso “anima”, qui si riferisce a una persona in vita. (Vedi Glossario, “anima”.)
prodigi O “portenti”, “presagi”. (Vedi approfondimento ad At 2:19.)
di casa in casa Questa espressione traduce il greco katʼ òikon, che letteralmente significa “[casa] per casa”, “secondo [la] casa”. In base a diversi lessici e commentari la preposizione greca katà può avere un valore distributivo. Per esempio, un lessico afferma che l’espressione si riferisce a “posti considerati in successione, [ha] valore distributivo [...] di casa in casa” (A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, 3ª ed.). Sulla stessa preposizione un’altra opera di consultazione dice: “(distributivo): Atti 2,46 e 5,42: [...] ‘(di casa in casa) / nelle (singole) case’” (Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. Balz e G. Schneider, ed. italiana a cura di O. Soffritti, Paideia, Brescia, 1998, vol. 1, col. 1919). Il biblista Lenski ha osservato: “Gli apostoli non cessarono mai, neppure per un momento, la loro benedetta opera. Continuarono ‘ogni giorno’, e lo fecero apertamente ‘nel Tempio’, dove il Sinedrio e la polizia del Tempio li potevano vedere e udire, e, naturalmente, anche κατ’ οἴκον, usato in senso distributivo, ‘di casa in casa’, e non semplicemente in senso avverbiale, ‘a casa’” (The Interpretation of The Acts of the Apostles, 1961). Queste fonti confermano l’idea che i discepoli predicassero in una casa dopo l’altra. Si fa un simile uso di katà in Lu 8:1, dove si legge che Gesù predicava “di città in città e di villaggio in villaggio”. Questo modo di contattare le persone, andando direttamente a casa loro, ebbe risultati straordinari (At 6:7; confronta At 4:16, 17; 5:28).
di casa in casa O “in diverse case”. Dal contesto si capisce che Paolo era andato nelle case di questi uomini per insegnare loro a “pentirsi, convertirsi a Dio e avere fede nel [...] Signore Gesù” (At 20:21). Quindi non si stava semplicemente riferendo a visite di cortesia o visite per incoraggiare altri cristiani una volta che erano diventati credenti, dato che questi si erano già pentiti e avevano già esercitato fede in Gesù. A proposito di At 20:20, A. T. Robertson osserva: “Vale la pena notare che il più grande dei predicatori predicava di casa in casa, e non andava a trovare la gente semplicemente per parlare del più e del meno” (Word Pictures in the New Testament, 1930, vol. III, pp. 349-350). Commentando le parole di Paolo riportate qui in Atti 20:20, Abiel Abbot Livermore scrisse: “Non si accontentava di pronunciare discorsi nell’assemblea pubblica, [...] ma si impegnava con zelo nella sua grande opera in privato, di casa in casa, e portava la verità celeste letteralmente a domicilio fino ai focolari e ai cuori degli efesini” (The Acts of the Apostles With a Commentary, 1844, p. 270). Per una spiegazione della resa del greco katʼ òikous (lett. “[case] per case”, “secondo [le] case”), vedi approfondimento ad At 5:42.
nelle case gli uni degli altri O “di casa in casa”. Qui il testo greco originale usa l’espressione katʼ òikon, dove la preposizione katà va intesa con valore distributivo (lett. “[casa] per casa”; “secondo [la] casa”). In quel periodo di bisogno, a quanto pare i discepoli si riunivano e mangiavano insieme a casa di compagni di fede che vivevano a Gerusalemme o nei dintorni. (Vedi approfondimenti ad At 5:42; 20:20.)
Geova Qui i manoscritti greci attualmente disponibili usano “il Signore” (in greco ho [...] Kỳrios). Comunque, come viene spiegato nell’App. C, ci sono diverse ragioni per ritenere che in origine in questo versetto ci fosse il nome divino e che solo in seguito sia stato sostituito dal titolo Signore. Per questo nel testo del versetto è stato usato il nome Geova. (Vedi App. C3 introduzione; At 2:47.)
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L’epigrafe che appare nella foto è nota come Iscrizione di Teodoto. Incisa su una lastra di pietra calcarea (lunga 72 cm e larga 42), fu rinvenuta agli inizi del XX secolo sull’Ofel, colle di Gerusalemme. Il testo, scritto in greco, parla di Teodoto come di un sacerdote che “edificò la sinagoga per la lettura della Legge e l’insegnamento dei Precetti” (E. Gabba, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Marietti, Torino, 1958, p. 81). L’iscrizione, ritenuta anteriore alla distruzione di Gerusalemme del 70, conferma la presenza di ebrei di lingua greca a Gerusalemme nel I secolo (At 6:1). Secondo alcuni, la sinagoga menzionata sarebbe la “cosiddetta Sinagoga dei Liberti” (At 6:9). L’iscrizione afferma che Teodoto, come pure suo padre e suo nonno, aveva il titolo di archisinagogo, in greco archisynàgogos (“capo della sinagoga”), titolo che compare varie volte nelle Scritture Greche Cristiane (Mr 5:35; Lu 8:49; At 13:15; 18:8, 17). Afferma inoltre che Teodoto edificò alloggi per coloro che arrivavano in città da altri luoghi. Probabilmente ci si riferisce agli alloggi usati dagli ebrei che giungevano a Gerusalemme da fuori città, in particolare in occasione delle feste annuali (At 2:5).

Alla Pentecoste del 33 a Gerusalemme si trovavano “giudei devoti provenienti da ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2:5). Dopo che lo spirito santo fu versato sui cristiani, questi furono in grado di parlare miracolosamente le lingue degli ebrei che per l’occasione erano giunti a Gerusalemme da fuori (At 2:4, 8). Le folle erano stupite di sentir parlare della buona notizia nelle loro proprie lingue. At 2:9-11 indica che quelle persone venivano da 15 luoghi diversi. Di sicuro molti di quelli che diventarono credenti portarono poi la buona notizia nei loro propri paesi. Sulla cartina questi paesi sono numerati in base all’ordine in cui vengono menzionati in At 2:9-11 (At 2:41, 44, 47).