Seconda lettera ai Corinti 11:1-33
Approfondimenti
apostoli sopraffini Qui Paolo ricorre a un’espressione che può anche essere resa “superapostoli” o “sommi apostoli”. La usa con una vena di sarcasmo per riferirsi a quegli uomini arroganti che a quanto pare si consideravano superiori agli apostoli che Gesù stesso aveva scelto. Li definisce “falsi apostoli” perché in realtà erano ministri di Satana (2Co 11:13-15). Costoro insegnavano una loro versione della buona notizia riguardo a Cristo (2Co 11:3, 4). Inoltre sminuivano e calunniavano Paolo mettendo in discussione l’autorità di apostolo che Dio gli aveva concesso.
un po’ di follia Paolo si rende conto che vantandosi può sembrare “folle” (2Co 11:16), eppure più volte nell’ultima parte di 2 Corinti si sente in dovere di difendere il suo apostolato. In 2Co 11 e 12, infatti, usa i termini greci àfron (“folle”) e afrosỳne (“follia”) ben otto volte (2Co 11:1, 16, 17, 19, 21; 12:6, 11). Gli “apostoli sopraffini” stavano creando molti problemi nella congregazione minando il rispetto per Paolo e per quello che insegnava. A motivo di quei falsi insegnanti, quindi, Paolo si era sentito costretto a vantarsi per sottolineare l’autorità che Dio gli aveva dato (2Co 10:10; 11:5, 16; vedi approfondimento a 2Co 11:5). In un contesto come quello, il fatto che si vantasse non era per niente folle.
L’amore non è geloso Il verbo greco zelòo descrive un sentimento intenso che può essere positivo o, come in questo caso, negativo. Qui, infatti, trasmette l’idea di uno stato d’animo negativo nei confronti di un presunto rivale o di chi sembra godere di un vantaggio. Il sostantivo affine zèlos, spesso reso “gelosia”, compare tra “le opere della carne” menzionate in Gal 5:19-21. Questa gelosia è egoistica e genera odio, non amore. Chi mostra amore cristiano non prova gelosia fuori luogo; nutre piuttosto fiducia e speranza, e agisce sempre nell’interesse degli altri (1Co 13:4-7; per una spiegazione della connotazione positiva del verbo greco, vedi approfondimento a 2Co 11:2).
provo per voi la stessa gelosia che ha Dio Sia il verbo greco reso “provare gelosia” che il sostantivo per “gelosia” descrivono un sentimento intenso che può essere positivo o negativo. In questo versetto hanno una connotazione positiva. Entrambi trasmettono l’idea di un interesse profondo e molto forte, di un sincero affetto verso qualcuno. Paolo esprime questo tipo di interesse verso i suoi compagni di fede unti con lo spirito. Li paragona a una casta vergine promessa in matrimonio a un solo marito, Gesù Cristo. Paolo vuole proteggere gelosamente tutti i componenti della congregazione dai pericoli spirituali affinché rimangano puri per Cristo. Quindi l’espressione “la stessa gelosia che ha Dio” (lett. “zelo di Dio”) indica che il suo amore e il suo affetto includono non solo un interesse profondo verso quelli che lui ama ma anche il forte desiderio di proteggerli dai pericoli. (Per una spiegazione della connotazione negativa del verbo greco, vedi approfondimento a 1Co 13:4.)
casta O “pura”. La sposa di Cristo è composta di 144.000 unti con lo spirito. Ognuno di loro conserva la propria simbolica verginità rimanendo separato dal mondo e mantenendosi puro sia dal punto di vista morale che dottrinale (Ri 14:1, 4; confronta 1Co 5:9-13; 6:15-20; Gc 4:4; 2Gv 8-11; Ri 19:7, 8).
apostoli sopraffini Qui Paolo ricorre a un’espressione che può anche essere resa “superapostoli” o “sommi apostoli”. La usa con una vena di sarcasmo per riferirsi a quegli uomini arroganti che a quanto pare si consideravano superiori agli apostoli che Gesù stesso aveva scelto. Li definisce “falsi apostoli” perché in realtà erano ministri di Satana (2Co 11:13-15). Costoro insegnavano una loro versione della buona notizia riguardo a Cristo (2Co 11:3, 4). Inoltre sminuivano e calunniavano Paolo mettendo in discussione l’autorità di apostolo che Dio gli aveva concesso.
compenso O “paga”, “stipendio”. Il termine greco è qui usato come termine tecnico-militare in riferimento alla retribuzione, o paga, di un soldato. È possibile che in origine facessero parte di questo compenso viveri e altri beni necessari. Probabilmente i soldati ebrei che andarono da Giovanni avevano mansioni di sorveglianza, specie in relazione a dazi e alla riscossione di imposte. Il consiglio dato loro da Giovanni potrebbe essere dovuto al fatto che la paga della maggior parte dei soldati era bassa ed evidentemente tra loro c’era la tendenza a fare soprusi per incrementare le entrate. Il termine qui reso “compenso” compare anche nell’espressione “a proprie spese” in 1Co 9:7, passo in cui Paolo si riferisce alla paga a cui ha diritto un “soldato” cristiano.
il salario del peccato O “il salario che il peccato dà come paga”. Il termine greco qui usato per “salario” (opsònion) significa alla lettera “paga”, “stipendio”. In Lu 3:14 (vedi approfondimento) è usato come termine militare in riferimento alla retribuzione, o paga, di un soldato. In questo contesto il peccato è personificato come un padrone che paga un simbolico salario. Chi pecca “si guadagna” la morte come “salario”, o paga. Una volta che una persona è morta e che ha ricevuto il suo “salario”, i suoi peccati non le vengono più imputati. Inoltre, se non fosse per il sacrificio di Gesù e per il proposito di Dio di risuscitare i morti, quella persona non tornerebbe mai più a vivere.
a proprie spese Lett. “con i propri stipendi”. Qui Paolo usa un termine greco che si riferisce al “compenso” dato a chi prestava servizio militare. (Vedi approfondimento a Lu 3:14.) In questo contesto lo utilizza in senso metaforico per dimostrare che gli instancabili “soldati” cristiani meritano di ricevere un modesto sostegno materiale.
Ho spogliato Lett. “ho derubato”. Il verbo greco sylào spesso viene usato per riferirsi al saccheggio compiuto da un esercito vincitore. Qui Paolo lo utilizza in senso metaforico creando una voluta esagerazione per chiarire il concetto che vuole esprimere. In realtà non c’era nulla di fraudolento nel fatto che avesse accettato aiuto da altri. Infatti in questo versetto risponde alle accuse dei cosiddetti “apostoli sopraffini” di Corinto, che lo incolpavano di aver approfittato della congregazione (2Co 11:5). Quando a Corinto Paolo “[si era] trovato nel bisogno”, sembra che i fratelli locali non lo avessero assistito, anche se a quanto pare alcuni di loro erano benestanti. Erano stati invece i fratelli della Macedonia, benché più poveri, a provvedere alle sue necessità (2Co 11:9). Riferendosi probabilmente all’aver fabbricato tende per mantenersi nel ministero, Paolo afferma di essersi umiliato ma di non aver peccato (2Co 11:7). Forse con una punta di ironia, dice di aver piuttosto “derubato” altre congregazioni accettando il loro aiuto economico mentre si dava da fare proprio per i corinti.
sostegno materiale Il termine greco qui usato (opsònion) significa alla lettera “paga”, “stipendio”. In Lu 3:14 (vedi approfondimento) è usato come termine militare in riferimento alla retribuzione, o paga, di un soldato. In questo contesto si riferisce al modesto sostegno materiale che Paolo aveva ricevuto da alcune congregazioni per soddisfare le sue necessità mentre era a Corinto. (Per altre occorrenze dello stesso termine greco, vedi approfondimenti a Ro 6:23; 1Co 9:7.)
per togliere qualsiasi pretesto Paolo si era rifiutato di accettare qualsiasi aiuto economico da parte della congregazione di Corinto (2Co 11:9). Gli “apostoli sopraffini”, invece, a quanto pare lo accettavano, e la loro accusa (il “pretesto” menzionato qui) era che Paolo, lavorando, dimostrava di non essere un apostolo come loro (2Co 11:4, 5, 20). D’altra parte cercavano “una ragione [o “pretesto”] per essere considerati uguali” a Paolo. L’espressione ciò di cui si vantano potrebbe riferirsi alle loro asserzioni in base alle quali avevano i requisiti per essere apostoli (2Co 11:7). Più avanti in questo stesso capitolo e poi nel capitolo 12, Paolo mette in risalto i propri requisiti per dimostrare che le loro asserzioni erano del tutto infondate. Inoltre, di quegli “apostoli sopraffini” dice senza mezzi termini: “Sono falsi apostoli [...] e si fingono apostoli di Cristo” (2Co 11:13).
secondo la carne Cioè per motivi umani, ovvero si vantavano delle proprie circostanze.
ebrei [...] israeliti [...] discendenti di Abraamo Paolo si sofferma sul proprio retaggio familiare, probabilmente perché alcuni dei suoi detrattori a Corinto si vantavano delle loro radici e della loro identità ebraiche. Prima di tutto si definisce ebreo, forse per enfatizzare i legami che la sua famiglia aveva con i patriarchi, inclusi Abraamo e Mosè (Gen 14:13; Eso 2:11; Flp 3:4, 5), oppure anche per richiamare il fatto che sapeva parlare l’ebraico (At 21:40–22:2; 26:14, 15). Poi si definisce israelita, termine a volte utilizzato per riferirsi agli ebrei (At 13:16; Ro 9:3, 4). Infine dichiara specificamente di discendere da Abraamo, sottolineando così di essere tra coloro che avrebbero ereditato le promesse fatte da Dio ad Abraamo (Gen 22:17, 18). Paolo però non dava troppa importanza a questi fattori umani (Flp 3:7, 8).
discendenti Lett. “seme”. (Vedi App. A2.)
tribunali Nelle Scritture Greche Cristiane il termine originale synèdrion, qui usato al plurale e reso “tribunali”, si riferisce in genere al Sinedrio, la corte suprema giudaica che si trovava a Gerusalemme. (Vedi Glossario, “Sinedrio”, e approfondimenti a Mt 5:22; 26:59.) Tuttavia era anche un termine generico usato per indicare un’assemblea o una riunione; qui designa i tribunali locali che avevano sede presso le sinagoghe e avevano l’autorità di infliggere pene come la flagellazione e la scomunica (Mt 23:34; Mr 13:9; Lu 21:12; Gv 9:22; 12:42; 16:2).
tre volte sono stato bastonato Qui Paolo si riferisce a una forma di punizione spesso inflitta dalle autorità romane. Il libro degli Atti menziona solo una di quelle “tre volte”, che si verificò a Filippi prima che Paolo scrivesse la seconda lettera ai Corinti (At 16:22, 23). Paolo fu picchiato anche dagli ebrei a Gerusalemme, ma in quel caso non si parla di bastoni (At 21:30-32). Comunque Corinto era una colonia romana, perciò quelli che lì ascoltavano le parole della lettera di Paolo di sicuro sapevano che si trattava di una forma di punizione particolarmente brutale; era anche umiliante perché iniziava con il denudare chi la subiva. (Confronta 1Ts 2:2.) La legge romana prevedeva che chi aveva la cittadinanza come Paolo fosse protetto da questa punizione. Ecco perché lui fece presente ai magistrati di Filippi che avevano violato i suoi diritti. (Vedi approfondimenti ad At 16:35, 37.)
dai giudei 40 colpi meno uno In base alla Legge mosaica chi commetteva una trasgressione doveva essere punito con la fustigazione. La Legge però stabiliva che, affinché non fosse “umiliato”, non gli si potevano dare più di 40 colpi (De 25:1-3). Per tradizione gli ebrei limitavano a 39 il numero di colpi così che chi li infliggeva evitasse di superare inavvertitamente il limite. Paolo quindi ricevette il massimo della punizione, il che dimostra che agli occhi degli ebrei quello che aveva fatto era particolarmente grave. È probabile che Paolo abbia subìto queste fustigazioni nelle sinagoghe oppure nei tribunali locali a esse adiacenti. (Vedi approfondimento a Mt 10:17.) Quando a infliggere questa punizione a Paolo furono autorità non ebraiche, il numero di colpi non fu soggetto alle limitazioni imposte dalla Legge mosaica. (Vedi approfondimento a 2Co 11:25.)
tre volte sono stato bastonato Qui Paolo si riferisce a una forma di punizione spesso inflitta dalle autorità romane. Il libro degli Atti menziona solo una di quelle “tre volte”, che si verificò a Filippi prima che Paolo scrivesse la seconda lettera ai Corinti (At 16:22, 23). Paolo fu picchiato anche dagli ebrei a Gerusalemme, ma in quel caso non si parla di bastoni (At 21:30-32). Comunque Corinto era una colonia romana, perciò quelli che lì ascoltavano le parole della lettera di Paolo di sicuro sapevano che si trattava di una forma di punizione particolarmente brutale; era anche umiliante perché iniziava con il denudare chi la subiva. (Confronta 1Ts 2:2.) La legge romana prevedeva che chi aveva la cittadinanza come Paolo fosse protetto da questa punizione. Ecco perché lui fece presente ai magistrati di Filippi che avevano violato i suoi diritti. (Vedi approfondimenti ad At 16:35, 37.)
lapidato Molto probabilmente qui Paolo si riferisce all’episodio che si verificò a Listra e che è riportato in At 14:19, 20. La lapidazione era una pena capitale prevista dalla Legge mosaica (Le 20:2). Quella che coinvolse Paolo fu probabilmente eseguita da una folla di fanatici ebrei e forse anche di non ebrei. Il loro obiettivo era chiaramente di ucciderlo infatti, dopo averlo lapidato, pensarono che fosse morto. I trattamenti brutali subiti da Paolo che sono descritti in questi versetti devono aver lasciato sul suo corpo cicatrici permanenti.
tre volte ho fatto naufragio Dei naufragi subiti da Paolo la Bibbia ne descrive in modo vivido uno, che però si verificò dopo la stesura di questa lettera (At 27:27-44). Paolo viaggiava molto spesso via mare (At 13:4, 13; 14:25, 26; 16:11; 17:14, 15; 18:18-22, 27), quindi sono molte le occasioni in cui gli può essere capitata una cosa del genere. Quando scrive ho trascorso un giorno e una notte in balìa del mare (lett. “nel profondo”), forse si riferisce alle conseguenze di uno di quei naufragi. È possibile che, sballottato dal mare in tempesta, sia rimasto aggrappato a uno dei resti della nave per una notte e un giorno interi prima di essere salvato o sospinto a riva. Comunque, nonostante queste vicissitudini estreme, Paolo non smise mai di viaggiare per mare.
romani Cioè cittadini romani. Paolo e a quanto pare anche Sila erano cittadini romani. La legge romana stabiliva che un cittadino aveva sempre diritto a un processo equo e che non doveva mai essere punito pubblicamente senza essere stato prima condannato. Chi possedeva la cittadinanza romana godeva di certi diritti e privilegi all’interno di tutto il territorio dell’impero. Un cittadino romano era soggetto alla legge romana, non a quella delle singole province. Quando veniva accusato, poteva accettare di essere giudicato secondo le leggi locali, ma conservava comunque il diritto di essere udito da un tribunale romano. In caso di reato capitale, poteva appellarsi all’imperatore. L’apostolo Paolo predicò estesamente nell’impero romano. La Bibbia riporta tre occasioni in cui si avvalse dei suoi diritti di cittadino romano. La prima è questa: qui a Filippi Paolo dice ai magistrati della città che picchiandolo hanno violato i suoi diritti. (Per le altre due occasioni, vedi approfondimenti ad At 22:25; 25:11.)
guardie Il termine greco rhabdoùchos, che significa letteralmente “portatore di bastone”, si riferiva a un ufficiale subalterno che aveva il compito di scortare i magistrati romani in pubblico e di eseguirne gli ordini. Il termine latino corrispondente era lictor. I littori romani avevano alcune mansioni simili a quelle dei poliziotti di oggi, ma erano costantemente al servizio del magistrato, da cui non si dovevano allontanare. Non erano soggetti alle dirette richieste della gente ma eseguivano esclusivamente gli ordini del magistrato.
pericoli sui fiumi, pericoli da parte di briganti La parola originale resa “fiumi” in questo versetto è la stessa che in Mt 7:25, 27 è tradotta “inondazioni”. In regioni montuose come la Pisidia (che Paolo attraversò durante il suo primo viaggio missionario), dopo le piogge spesso i fiumi straripavano, trasformando le gole della zona in torrenti impetuosi e molto pericolosi. La stessa regione era tristemente nota anche perché infestata da bande di briganti. Paolo fu disposto ad affrontare questi pericoli non perché fosse imprudente, ma perché volle seguire la guida di Dio nel suo ministero (At 13:2-4; 16:6-10; 21:19). Il suo desiderio di portare la buona notizia superava di gran lunga qualsiasi preoccupazione relativa a comodità e incolumità. (Confronta Ro 1:14-16; 1Ts 2:8.)
non avere di che coprirci Il verbo greco qui usato significa alla lettera “essere nudo”, ma in questo contesto si riferisce al non essere vestito a sufficienza. (Vedi approfondimento a Mt 25:36.) Sembra che Paolo stia mettendo in contrasto la sua vita di sacrificio con quella di alcuni cristiani di Corinto orgogliosi della loro posizione nella congregazione che invece avevano una vita relativamente agiata (1Co 4:8-10; confronta 2Co 11:5).
senza avere di che coprirmi Il termine greco gymnòtes (lett. “nudità”) può descrivere la condizione di chi non è vestito a sufficienza. (Confronta Gc 2:15; nt.) Quando dice “sono rimasto [...] al freddo e senza avere di che coprirmi”, Paolo si riferisce a difficoltà che incontrò forse nei suoi viaggi in zone con temperature rigide, o quando si ritrovò in fredde prigioni, quando gli fu portato via tutto dai briganti, oppure mentre attraversava gelidi fiumi, svolgeva il suo ministero o veniva perseguitato. (Vedi approfondimento a 1Co 4:11.)
le sue membra si prendano cura le une delle altre Lett. “le membra si preoccupino le une delle altre”. Il verbo greco usato qui (merimnào) si trova anche in 1Co 7:32, dove Paolo dice che un cristiano che è single “si preoccupa delle cose del Signore”. (Vedi approfondimento a 1Co 7:32.) Lo stesso verbo compare in 1Co 7:33 a proposito della preoccupazione che un marito ha per sua moglie. In un altro versetto Paolo menziona anche la propria “preoccupazione [in greco mèrimna, affine al verbo merimnào] per tutte le congregazioni” (2Co 11:28). Infatti si preoccupava sinceramente che tutti i discepoli del Figlio di Dio rimanessero fedeli sino alla fine. Paolo inoltre usa il verbo merimnào quando dice che Timoteo per sua stessa natura si preoccupava dei fratelli di Filippi (Flp 2:20). L’uso di questo verbo qui in 1Co 12:25 sottolinea l’intensità con cui i componenti della congregazione cristiana dovrebbero interessarsi del benessere spirituale, fisico e materiale dei loro fratelli (1Co 12:26, 27; Flp 2:4).
la preoccupazione Il termine greco mèrimna, reso “preoccupazione”, può anche essere tradotto “cura ansiosa”, “apprensione”. Il fatto che Paolo menzioni questo aspetto insieme a tutti i pericoli e le avversità elencati nei versetti precedenti rivela quanto fosse preoccupato per i compagni di fede (2Co 11:23-27). Paolo si teneva in contatto con diversi fratelli, che lo aggiornavano sulla condizione spirituale dei cristiani delle varie congregazioni (2Co 7:6, 7; Col 4:7, 8; 2Tm 4:9-13). Si preoccupava sinceramente che tutti rimanessero fedeli a Dio sino alla fine. (Vedi approfondimento a 1Co 12:25, dove il verbo affine merimnào ha un significato simile.)
Sia lodato Geova O “benedetto sia Geova”. Questa espressione di lode è comune nelle Scritture Ebraiche, dove spesso è usata con il nome divino (1Sa 25:32; 1Re 1:48; 8:15; Sl 41:13; 72:18; 106:48; vedi App. C3 introduzione; Lu 1:68).
Colui che dev’essere lodato per sempre In greco la costruzione grammaticale di questa frase indica che “Colui” si riferisce a Geova, “l’Iddio e Padre”, e non al “Signore Gesù”. Simili espressioni di lode rivolte a Dio si trovano in Lu 1:68 (vedi approfondimento); Ro 1:25; 9:5; 2Co 1:3; Ef 1:3 e 1Pt 1:3.
che governava la Galilea Lett. “il tetrarca”. Il termine “tetrarca” significa “governante di un quarto”, cioè del quarto di una provincia. Designava il governatore di un territorio minore o un principe locale che ricopriva quella carica con il permesso delle autorità romane. La tetrarchia di Erode Antipa comprendeva Galilea e Perea. (Confronta approfondimento a Mr 6:14.)
governatore O “etnarca”. Lett. “capo del popolo”. Il sostantivo ethnàrches, reso “governatore”, compare solo qui nelle Scritture Greche Cristiane. Si riferisce a una posizione inferiore a quella di un re ma superiore a quella di un tetrarca. (Vedi approfondimento a Mt 14:1.) Nel corso dei secoli, però, ha assunto vari significati. Il governatore menzionato in questo versetto era un rappresentante del re Areta a Damasco. Non si conoscono di preciso le responsabilità che assolveva né la sua nazionalità.
re Areta Areta IV era un re arabo; governò dal 9 a.E.V. al 40 E.V. La capitale del suo regno era la città nabatea di Petra, a sud del Mar Morto, ma Areta controllava anche Damasco. In questo brano Paolo racconta un episodio accaduto subito dopo che si era convertito al cristianesimo. Dice che il governatore locale di Damasco, l’etnarca al servizio del re Areta, cercò di catturarlo. In Atti invece si legge che “i giudei cospirarono per ucciderlo” (At 9:17-25). Tra il resoconto di Luca e quello di Paolo, comunque, non c’è nessuna contraddizione. Un libro di storia afferma: “I giudei offrirono il pretesto, l’etnarca gli uomini armati”.
cesta Luca qui usa il greco sfyrìs, termine utilizzato anche nei Vangeli di Matteo e Marco in riferimento ai sette grandi cesti in cui furono raccolti gli avanzi dopo che Gesù ebbe sfamato 4.000 uomini (Mt 15:37). (Vedi approfondimento a Mt 15:37.) Sfyrìs designa un cesto di grandi dimensioni. Nel raccontare ai cristiani di Corinto della sua fuga, l’apostolo Paolo usò la parola greca sargàne, che indica una “cesta di vimini”, di corde o di ramoscelli intrecciati (2Co 11:32, 33; nt.). Entrambi questi termini greci possono indicare lo stesso tipo di grande cesto.
cesta O “cesta di vimini”. Nel raccontare ai cristiani di Corinto della sua fuga, Paolo usa la parola greca sargàne, che indica una cesta di corde o di ramoscelli intrecciati. Questo tipo di cesta poteva essere usata per trasportare grandi quantità di fieno, paglia o lana. (Vedi approfondimento ad At 9:25.)
da una finestra Parlando di questo episodio, il testo originale di At 9:25 letteralmente dice “attraverso il muro”. Ma l’espressione è stata tradotta “attraverso un’apertura nelle mura”, traduzione appropriata dal momento che qui in 2Co 11:33 viene menzionata specificamente “una finestra”. Alcuni sostengono che Paolo sia stato calato da una finestra della casa di un discepolo inglobata nelle mura della città.
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Nel I secolo la città di Damasco probabilmente aveva una pianta simile a quella riprodotta qui. Il commercio era fiorente, e le acque del fiume Barada (l’Abana di 2Re 5:12) rendevano l’area intorno alla città simile a un’oasi. Damasco contava varie sinagoghe. Saulo venne in questa città con l’intenzione di arrestare “tutti gli appartenenti alla Via”, espressione usata per descrivere i discepoli di Gesù (At 9:2; 19:9, 23; 22:4; 24:22). Ma sulla via di Damasco gli apparve il glorificato Gesù. Dopo questo episodio, Saulo rimase per un periodo a Damasco, nella casa di un uomo di nome Giuda che viveva sulla strada chiamata Diritta (At 9:11). In una visione, Gesù diresse il discepolo Anania alla casa di Giuda per far recuperare la vista a Saulo, che in seguito fu battezzato. E così, invece di arrestare gli ebrei cristiani, Saulo divenne uno di loro. Cominciò a predicare la buona notizia proprio nelle sinagoghe di Damasco. Dopo aver viaggiato fino all’Arabia e poi di nuovo a Damasco, Saulo fece ritorno a Gerusalemme, probabilmente intorno all’anno 36 (At 9:1-6, 19-22; Gal 1:16, 17).
A. Damasco
1. Strada per Gerusalemme
2. Strada chiamata Diritta
3. Agorà
4. Tempio di Giove
5. Teatro
6. Odeon (?)
B. Gerusalemme

Su entrambe le facce di questa moneta d’argento, coniata intorno al 21 E.V., si trova l’effigie del re arabo Areta IV. Monete come questa riportavano un’iscrizione (parzialmente visibile nella foto a sinistra) dove per intero si leggeva: “Areta, re dei nabatei, amico del suo popolo”. La capitale del regno nabateo era Petra, situata a sud del Mar Morto, nella moderna Giordania. (Vedi App. B10, B13.) Areta regnò all’incirca dal 9 a.E.V al 40 E.V. Viene menzionato una sola volta nella Bibbia, in riferimento all’iniziale attività di predicazione che Paolo svolse a Damasco pressappoco tra il 34 e il 36. A quel tempo la città era in qualche modo sotto il controllo di questo re. Il governatore che Paolo menziona in 2Co 11:32 era a quanto pare un suo rappresentante lì. (Vedi approfondimento a 2Co 11:32.) Durante il suo regno Areta coniò un’enorme quantità di monete d’argento e di bronzo, molte delle quali sono state ritrovate lontano dall’antica Nabatea. Monete come questa confermano la storicità di un re di nome Areta contemporaneo dell’apostolo Paolo.