Prima lettera ai Corinti 9:1-27
Note in calce
Approfondimenti
apostolo Il sostantivo greco qui usato (apòstolos) deriva da un verbo (apostèllo) che significa “inviare”, “mandare” (Mt 10:5; Lu 11:49; 14:32). Il significato fondamentale di apòstolos risulta chiaro dalle parole di Gesù riportate in Gv 13:16, dove è tradotto “chi è mandato”. Paolo fu chiamato a essere apostolo delle nazioni, o dei non giudei, e fu scelto per questo ruolo direttamente da Gesù Cristo risorto (At 9:1-22; 22:6-21; 26:12-23). Paolo difese il suo apostolato facendo riferimento al fatto che aveva visto il Signore Gesù Cristo risuscitato (1Co 9:1, 2) e aveva compiuto miracoli (2Co 12:12). Era anche stato impiegato per far scendere lo spirito santo su credenti battezzati, il che dimostrava ulteriormente che era un vero apostolo (At 19:5, 6). Pur definendosi spesso apostolo, non si include mai fra i Dodici (1Co 15:5, 8-10; Ro 11:13; Gal 2:6-9; 2Tm 1:1, 11).
apostolo Vedi approfondimento a Ro 1:1.
Simone, quello chiamato Pietro Nelle Scritture Pietro è chiamato in cinque modi diversi: (1) “Simeone”, dalla forma greca Symeòn che rispecchia da vicino quella ebraica dello stesso nome; (2) “Simone”, nome greco (sia Simeone che Simone derivano da un verbo ebraico che significa “udire”, “ascoltare”); (3) “Pietro”, nome greco che significa “frammento di roccia” e che nessun altro ha nelle Scritture; (4) “Cefa”, equivalente semitico di Pietro (forse affine all’ebraico kefìm [“rocce”] usato in Gb 30:6; Ger 4:29); (5) “Simon Pietro” (At 15:14; Gv 1:42; Mt 16:16).
Cefa Uno dei nomi dell’apostolo Simon Pietro. Quando lo incontrò la prima volta, Gesù gli diede il nome semitico Cefa (in greco Kefàs). Questo nome potrebbe essere affine all’ebraico kefìm (“rocce”) usato in Gb 30:6 e Ger 4:29. In Gv 1:42 Giovanni spiega che Cefa “si traduce ‘Pietro’” (Pètros, nome greco dal significato simile [“frammento di roccia”]). Il nome Cefa compare solo in Gv 1:42 e in due lettere di Paolo, 1 Corinti e Galati (1Co 1:12; 3:22; 9:5; 15:5; Gal 1:18; 2:9, 11, 14; vedi approfondimenti a Mt 10:2; Gv 1:42).
La suocera di Simone Ovvero di Pietro, chiamato anche Cefa (Gv 1:42). Questo particolare è coerente con quanto scritto da Paolo in 1Co 9:5, da cui si comprende che Cefa era un uomo sposato. Sua suocera evidentemente viveva con lui, e nella stessa casa viveva anche il fratello Andrea (Mr 1:29-31; vedi l’approfondimento a Mt 10:2, dove si parla dei diversi nomi dell’apostolo).
una moglie credente O “una sorella come moglie”, cioè una moglie che è cristiana. Nella congregazione cristiana le donne sono considerate sorelle in senso spirituale (Ro 16:1; 1Co 7:15; Gc 2:15).
Cefa Uno dei nomi dell’apostolo Pietro. (Vedi approfondimenti a Mt 10:2; 1Co 1:12.) In questo versetto si parla di Cefa come di un uomo sposato. Stando a quanto indicano i Vangeli, sua suocera viveva con lui, e nella stessa casa viveva anche il fratello Andrea (Mt 8:14; Mr 1:29-31; vedi approfondimento a Lu 4:38). Da questo versetto si comprende che sua moglie a volte lo accompagnava mentre lui svolgeva il suo ministero. Anche le mogli di altri apostoli e dei fratellastri di Gesù accompagnavano i rispettivi mariti.
a proprie spese Lett. “con i propri stipendi”. Qui Paolo usa un termine greco che si riferisce al “compenso” dato a chi prestava servizio militare. (Vedi approfondimento a Lu 3:14.) In questo contesto lo utilizza in senso metaforico per dimostrare che gli instancabili “soldati” cristiani meritano di ricevere un modesto sostegno materiale.
compenso O “paga”, “stipendio”. Il termine greco è qui usato come termine tecnico-militare in riferimento alla retribuzione, o paga, di un soldato. È possibile che in origine facessero parte di questo compenso viveri e altri beni necessari. Probabilmente i soldati ebrei che andarono da Giovanni avevano mansioni di sorveglianza, specie in relazione a dazi e alla riscossione di imposte. Il consiglio dato loro da Giovanni potrebbe essere dovuto al fatto che la paga della maggior parte dei soldati era bassa ed evidentemente tra loro c’era la tendenza a fare soprusi per incrementare le entrate. Il termine qui reso “compenso” compare anche nell’espressione “a proprie spese” in 1Co 9:7, passo in cui Paolo si riferisce alla paga a cui ha diritto un “soldato” cristiano.
È dei tori che Dio si preoccupa? Paolo fa questa domanda retorica per portare avanti il suo ragionamento. Ha appena citato il punto della Legge mosaica dove si legge: “Non devi mettere la museruola al toro mentre trebbia” (De 25:4). Come il toro ha diritto di mangiare il grano che trebbia, così il cristiano che trasmette cose spirituali ad altri merita di essere sostenuto dal punto di vista materiale. In 1Co 9:10, parlando del comando riportato in De 25:4, Paolo dice: “È stato scritto proprio per noi”. Non sottintende che i cristiani possano ignorare il principio divino di trattare bene gli animali. Intende piuttosto dire che, se il principio si applica ad animali che lavorano, tanto più si applica a esseri umani che lavorano, soprattutto a coloro che si danno da fare nel sacro servizio.
necessità O “obbligo”. Paolo ha ricevuto l’incarico di predicare, e si sente in dovere di svolgerlo (At 9:15-17; Gal 1:15, 16). Infatti aggiunge: Guai a me se non annunciassi la buona notizia! Usa il termine greco reso “guai” per esprimere l’angoscia che proverebbe se non assolvesse il suo obbligo. La sua stessa vita dipende dall’essere leale. (Confronta Ez 33:7-9, 18; At 20:26.) Forse ha in mente le parole di Geremia e Amos (Ger 20:9; Am 3:8). Comunque predica spinto dall’amore, non per semplice senso del dovere (2Co 5:14, 20; Flp 1:16).
Per i giudei sono diventato come un giudeo Il retaggio ebraico di Paolo e la sua disponibilità a fare “tutto per la buona notizia” gli permisero di aiutare gli ebrei umili ad accettare che Gesù fosse il Messia (1Co 9:23). Ad esempio, Paolo “prese [Timoteo] e lo circoncise a motivo dei giudei”, e Timoteo acconsentì. Paolo lo fece anche se la circoncisione non era un requisito per i cristiani (At 16:1-3).
Per quelli che non hanno legge sono diventato come uno che non ha legge L’espressione “quelli che non hanno legge” si riferisce ai non ebrei, che non erano sotto la Legge mosaica. Nel dare testimonianza a persone greche ad Atene, Paolo tenne conto del loro modo di pensare e parlò del Dio a loro sconosciuto; citò perfino i loro poeti (At 17:22-34).
Per i deboli sono diventato debole Pur usando parole vigorose, Paolo teneva in considerazione la coscienza sensibile di alcuni ebrei e non ebrei nella congregazione. È in questo senso che era “diventato debole” per i deboli (Ro 14:1, 13, 19; 15:1).
faccio tutto per la buona notizia Con questa espressione Paolo riassume il motivo per cui ha adattato i suoi metodi così da presentare il messaggio in modo efficace a un’ampia varietà di persone (1Co 9:19-23). Comunque, per fare discepoli, non ha mai preso in considerazione la possibilità di falsificare la parola di Dio oppure di comportarsi con astuzia, o inganno (2Co 4:2).
in una corsa tutti corrono Le gare di atletica erano parte integrante della cultura greca; Paolo se ne serve in modo efficace per fare degli esempi (1Co 9:24-27; Flp 3:14; 2Tm 2:5; 4:7, 8; Eb 12:1, 2). I cristiani di Corinto conoscevano bene le gare di atletica dei Giochi Istmici. Questi giochi si tenevano ogni due anni vicino a Corinto ed erano secondi per importanza solo ai Giochi Olimpici, che si tenevano a Olimpia. È probabile che Paolo fosse a Corinto durante i Giochi Istmici del 51. A questi eventi i corridori gareggiavano su diverse distanze. Nei suoi esempi Paolo fa riferimento a corridori e pugili per insegnare il valore della disciplina e della perseveranza, nonché l’importanza di fare sforzi mirati (1Co 9:26).
corsa Il termine “corsa” traduce il greco stàdion (lett. “stadio”), che può indicare la struttura in cui si svolgevano gare podistiche e altri eventi, una misura di lunghezza o la gara stessa. In questo contesto Paolo si riferisce alla gara. La lunghezza dello stàdion greco variava da un posto all’altro; a Corinto era di circa 165 m. La lunghezza di quello romano si aggirava intorno ai 185 m. (Vedi App. B14.)
solo uno ottiene il premio Nell’antica Grecia chi vinceva una gara di atletica riceveva come premio una ghirlanda, solitamente fatta di foglie. Quella corona era un segno di grande onore, e sembra che venisse tenuta in bella vista nello stadio perché i contendenti potessero vedere il premio. Paolo incoraggia i cristiani unti a impegnarsi per ottenere qualcosa di assai migliore di una ghirlanda, di “una corona che si deteriora”: la corona incorruttibile della vita immortale. Per vincere, il cristiano deve tenere lo sguardo fisso sul premio (1Co 9:25; 15:53; 1Pt 1:3, 4; 5:4).
chiunque partecipa a una gara O “ogni atleta”. Qui in greco compare un verbo che è affine a un sostantivo spesso utilizzato per indicare le gare di atletica. Questo sostantivo è usato in senso figurato in Eb 12:1 con riferimento alla “corsa” cristiana per la vita. È anche usato con il significato più generico di “lotta” (Flp 1:30; Col 2:1) o di “combattimento” (1Tm 6:12; 2Tm 4:7). Lo stesso verbo greco presente qui in 1Co 9:25 è stato reso “fare ogni sforzo”, “lottare”, “prodigarsi”, “sforzarsi” e “combattere” (Lu 13:24; Col 1:29; 4:12; 1Tm 4:10; 6:12). (Vedi approfondimento a Lu 13:24.)
si padroneggia Gli atleti che si preparavano a una gara si sottoponevano a una dura disciplina. Molti seguivano una dieta ferrea, e alcuni non bevevano vino. Lo storico Pausania scrive che gli allenamenti per i Giochi Olimpici duravano 10 mesi, e si presume che la preparazione atletica per altri importanti giochi avesse una durata simile.
Fate ogni sforzo O “continuate a lottare”, “sforzatevi con vigore”. L’esortazione di Gesù sottolinea il bisogno di impegnarsi con tutto sé stessi per riuscire a entrare per la porta stretta. Vari commentari propongono per questo passo rese come “sforzatevi al massimo”. Il verbo greco agonìzomai è affine al sostantivo greco agòn, spesso utilizzato per indicare le competizioni atletiche. Questo termine è usato in senso figurato in Eb 12:1 con riferimento alla “corsa” cristiana per la vita. È anche usato con il significato più generico di “lotta” (Flp 1:30; Col 2:1) o di “combattimento” (1Tm 6:12; 2Tm 4:7). Lo stesso verbo greco presente in Lu 13:24 è stato reso “partecipare a una gara”, “lottare”, “prodigarsi”, “sforzarsi” e “combattere” (1Co 9:25; Col 1:29; 4:12; 1Tm 4:10; 6:12). Dato che questa espressione appartiene al lessico della competizione nei giochi atletici, alcuni hanno suggerito che lo sforzo che Gesù incoraggiò a fare potrebbe essere paragonato a quello di un atleta che impiega al massimo tutte le sue forze per vincere il premio.
sferro i miei colpi Paolo qui si paragona a un pugile che cerca di vincere un incontro. Un pugile ben allenato sferra colpi vincenti, evitando di colpire l’aria e quindi di sprecare energie. In modo simile il cristiano deve indirizzare bene i propri sforzi, avendo sempre di mira la ricompensa finale della vita eterna (Mt 7:24, 25; Gc 1:22). Combatte per superare qualunque ostacolo o difficoltà (anche quelli dentro di lui) che potrebbe farlo soccombere (1Co 9:27; 1Tm 6:12).
tratto duramente O “punisco”, “disciplino severamente”. Il verbo greco originale alla lettera significa “colpire sotto l’occhio”. Il cristiano deve autodisciplinarsi e padroneggiarsi anche se farlo potrebbe essere doloroso come ricevere un pugno sotto l’occhio. Una disciplina tanto rigorosa gli permetterà di non “essere disapprovato” da Dio. (Confronta approfondimento a Lu 18:5.)
stancarmi con le sue richieste O “tormentarmi fino allo stremo”. Lett. “mi colpisca sotto l’occhio fino alla fine”. Il verbo che compare nell’originale (hypopiàzo) può avere il senso di “prendere a schiaffi”, “fare un occhio nero”. Qui è usato in senso figurato e trasmette l’idea di provocare un fastidio costante, portare allo sfinimento. Secondo alcuni studiosi, hypopiàzo suggerisce l’idea di danneggiare la reputazione di qualcuno. In questo contesto descrive come si sente il giudice, che inizialmente non vuole assecondare le richieste della vedova in cerca di giustizia ma che poi decide di agire a motivo della sua insistenza (Lu 18:1-4). Con questa parabola Gesù non dice che Dio è come il giudice ingiusto; lo mette piuttosto in contrapposizione con il giudice. Se quel giudice ingiusto alla fine fa ciò che è giusto, tanto più lo farà Dio. A imitazione della vedova, i servitori di Dio devono continuare a chiedergli aiuto. E Dio, che è giusto, esaudirà la loro preghiera, facendo giustizia (Lu 18:6, 7).
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Nei tempi antichi i sigilli venivano usati per scopi diversi, come ad esempio indicare autenticità o consenso. (Vedi Glossario, “sigillo”.) In epoca classica documenti legali o transazioni commerciali venivano registrati su tavolette cerate, cioè tavolette di legno ricoperte di cera. Il contenuto di quei documenti andava poi autenticato da testimoni. Ogni testimone aveva il proprio sigillo, un marchio personale, inciso solitamente su un anello. Le tavolette venivano chiuse e tenute insieme da un cordoncino, in un punto del quale si versava un po’ di cera calda, e su questa veniva impresso il sigillo. Una volta raffreddata la cera, quel sigillo garantiva che il documento sarebbe rimasto chiuso fino alla sua apertura pubblica. In questo modo i testimoni confermavano e attestavano l’autenticità del contenuto, e il documento era protetto da falsificazioni. Per questa ragione le espressioni “sigillare” o “apporre il sigillo a” finirono per trasmettere l’idea di certificare, confermare o convalidare l’autenticità di qualcosa. L’apostolo Giovanni scrisse che chi ha accettato la testimonianza di Gesù “ha apposto il proprio sigillo sul fatto che Dio è veritiero”, cioè ha confermato che quello che Dio dice è vero. (Vedi approfondimento a Gv 3:33.)

In queste foto, scattate agli inizi del XX secolo, si vede un agricoltore che trebbia servendosi di bovini con la museruola. Per iniziare a separare il cereale dalla pula, gli agricoltori usavano dei tori che trainavano una sorta di slitta sul grano mietuto. A questi tori veniva messa la museruola così che non potessero mangiare mentre lavoravano. La Legge mosaica vietava questa consuetudine, a dimostrazione della considerazione di Geova per gli animali (De 25:4). Dover lavorare duramente con il grano così vicino alla bocca senza poterlo mangiare a motivo della museruola sarebbe stata una tortura per un animale affamato. Ragionando sul principio che stava alla base di quel comando, l’apostolo Paolo disse che i ministri cristiani che si impegnano duramente meritano di ricevere onore e sostegno materiale (1Co 9:9-14; 1Tm 5:17, 18).

L’antica città di Corinto sorgeva sull’istmo che congiunge la Grecia centrale con la sua penisola meridionale, il Peloponneso. Molti attraversavano questa sottile lingua di terra sia che si spostassero via terra o che viaggiassero via mare. La popolazione della città era numerosa, multietnica e multiculturale. Paolo cercava una base comune con tutti i tipi di persone, per salvarne il maggior numero possibile (1Co 9:22). In una visione il Signore gli aveva detto di avere molti potenziali discepoli a Corinto; per questo l’apostolo vi rimase un anno e mezzo (At 18:1, 9-11). Alcuni anni dopo, mentre si trovava a Efeso, Paolo venne a sapere che i discepoli di Corinto avevano seri problemi. Dato che li amava come figli, per ammonirli e incoraggiarli scrisse loro la lettera ispirata oggi nota come 1 Corinti (1Co 4:14).

Nella sua prima lettera ai Corinti, l’apostolo Paolo parla di atleti che si allenano duramente “per ottenere una corona che si deteriora”. Forse si sta riferendo al premio ricevuto dagli atleti che vincevano una gara dei Giochi Istmici, giochi che si tenevano nelle vicinanze di Corinto. Al tempo della stesura della lettera di Paolo, probabilmente queste corone erano ghirlande fatte di fronde di pino, o a volte di sedano selvatico; erano quindi corone che si deterioravano velocemente. Questo aiuta a spiegare il contrasto tra la gloria fugace ottenuta dagli atleti vincitori e la gloria duratura ottenuta dai cristiani unti che regnano con Cristo (1Co 9:25).